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La claudicanza di Giacobbe

Una vittoria invalidante o una sconfitta gloriosa: la claudicanza di Giacobbe e la nostra

Una rilettura di Genesi 32 e 33 con un’incursione in Giovanni 3, 30

Questo testo che è ricchissimo e che potrebbe occupare la riflessione di una comunità di fede per mesi, è visitato oggi dall’esito finale. Giacobbe esce dalla più straordinaria, dura e misteriosa delle esperienze con un’andatura claudicante, con una nuova identità e un’esperienza di incontro con Dio quasi impossibile da raccontare.  Giacobbe divenuto Israele è pronto dopo molti anni a incontrare il suo nemico di sempre, suo fratello!
Una piccola parentesi sulla presenza di storie di fratelli nella Bibbia. Dalla prima pagina fino all’ultima le storie più complicate, le relazioni più difficili sono quelle fra fratelli. L’odio di Caino che si trasforma nel primo omicidio è paradigmatico della drammaticità del problema, ma a questa possono essere aggiunte tante altre storie per le quali essere figli di uno stesso padre (non sempre la madre è la stessa nelle storie bibliche) non è garanzia di unità, ma al contrario può essere l’origine di profondissimi conflitti. Sono storie con finali tragici o a volte inattese riconciliazioni. Quella fra Giacobbe ed Esaù è un esempio di happy end di una storia conflittuale interessantissima che comincia nelle complicate dinamiche fra genitori. Anzi la Bibbia ci dice che comincia già nel grembo materno e che il nome di Giacobbe, soppiantatore, imbroglione, esprime proprio questa origine che diventa destino!
Giacobbe zoppica vistosamente quando alla fine incontra suo fratello dopo una storia intrisa di furbizie, calcoli, gelosie, fughe, odi, minacce di vendetta, lontananze, assenze, risentimenti, attese e paure. Cos’era accaduto e cos’era cambiato?
Esaù e Giacobbe pur essendo gemelli erano stati bambini molto diversi, il primo attirato dalla vita all’aria aperta diventa cacciatore, il secondo è invece molto più attaccato alla mamma, alle tende e all’allevamento. Il primo più istintivo, il secondo più calcolatore. Questa polarità che i genitori favoriscono con le loro preferenze allontana i fratelli e crea fra loro un’insana competitività, che a sua volta si sviluppa in un conflitto aperto fino all’età adulta.
Cuore di questo testo è l’imminenza dell’incontro fra i due fratelli che appare inevitabile e sotto una incombente minaccia di morte. Giacobbe mette in campo la sua strategia per ammorbidire la volontà vendicativa del fratello. Manda dei messaggeri di pace che tornano con un messaggio chiaro: Esaù ti viene incontro con un esercito di 400 uomini. Il terrore invade l’animo di Giacobbe e abbiamo in questo testo la preghiera più appassionata dell’intero libro della Genesi. Lui aveva cercato di preparare e pianificare l’incontro ma più che pianificare capisce che deve pregare.
Una parola vorrei rimarcare in questa preghiera: “Io sono troppo piccolo per essere degno di tutta la benevolenza che hai usata e di tutta la fedeltà che hai dimostrata al tuo servo” (vv. 10). Bontà e fedeltà (l’espressione equivalente nel nuovo testamento è grazia e verità) saranno le caratteristiche costanti di Dio nel rapporto con il suo popolo. Anche in questa preghiera tuttavia Giacobbe è sempre se stesso. Pur ammettendo di essere troppo piccolo per meritare ciò che ha (e che sa di poter perdere completamente per mano di suo fratello), lui cerca di convincere Dio e di “ricordargli” le sue promesse, inventandone anche qualcuna (32, 9)! Dopo la preghiera affina la sua strategia, manda al fratello doni ricchissimi cercando di ammorbidirlo. Rinuncia cioè a parte di ciò che ha conquistato nella speranza di salvare qualcosa, ma è solo quanto accade dopo a cambiare del tutto il suo atteggiamento, di più, la sua vita.
Quello che veramente accadde quella notte in riva al profondo e tumultuoso torrente Iabboc è difficile da comprendere. Il testo anche nella sua attuale redazione lascia intatto il mistero. Quello che è certo è che fu un’aggressione improvvisa e una lotta durissima che durò l’intera notte. Tralascio le ricostruzioni degli strati più antichi del racconto che alcuni studiosi hanno cercato di fare per concentrarmi sul testo che abbiamo davanti per come il narratore stesso ce lo trasmette. Giacobbe comprese che ad aggredirlo fu Dio stesso o almeno che, attraverso quella aggressione, lui aveva fatto l’esperienza di “vedere Dio faccia a faccia”.  Come quando era giovane e aveva rubato la benedizione a suo padre Isacco, così qui chiede di nuovo di essere benedetto dallo sconosciuto, anzi sembra quasi estorcere questa benedizione con la forza: “Non ti lascerò andare prima che mi abbia benedetto!” (v. 26). Come avrebbe fatto Mosè secoli dopo, Giacobbe chiede poi al misterioso aggressore il nome che però non gli viene svelato. Al contrario a lui viene cambiato nome e identità. E viene reso claudicante. Se è Dio o un suo angelo ad aggredire Giacobbe abbiamo da chiederci molte cose: perché, prima di tutto, questa aggressione? Perché una lotta alla pari? Chi vince? Dio che lo azzoppa e gli cambia i connotati o Giacobbe che ne esce comunque vivo e con una nuova benedizione?
Quello che sappiamo è che Giacobbe dopo quella notte è ancora vivo ma è un uomo diverso. Porta ancora con sé il ricordo del suo tormentato passato, mette ancora in atto le sue strategie di avvicinamento al nemico-fratello, va incontro ad Esaù con lo stesso timore ma nel profondo è cambiato. Ora non dice soltanto di essere piccolo e indegno per ingraziarsi il favore di Dio. Ora sente la debolezza nelle gambe, nel suo incedere zoppicante, nella sua fatica a stare in piedi. E’ consapevole come mai prima della sua precarietà, della sua fragilità. Accetta (è costretto ad accettare?) la sua nuova identità e questo gli consente di dire una frase che colpisce quando vede suo fratello e quando suo fratello gli va incontro per abbracciarlo. Gli dice: “Ho visto il tuo volto come uno vede il volto di Dio”. Dio che lo aveva affrontato nella notte era allora suo fratello Esaù?
Le suggestioni sono tante. Il testo è un testo aperto che non parla soltanto ad Israele di Israele, non c’è soltanto in tutta questa vicenda il compendio simbolico dell’intera storia del popolo di Dio con le sue altezze e i suoi abissi. Questo testo parla anche di noi, delle nostre relazioni difficili, della nostra tormentata preghiera a Dio quando siamo confrontati con il pericolo e la vicinanza della morte, delle incursioni di Dio nella nostra vita che non sempre sono pacifiche ma a volte sono battaglie di senso lunghe e dolorose. Quello che ci viene da questa storia di claudicanza è che viene un momento nella nostra vita in cui il Signore ci benedice con una rivelazione. Dio ci rivela la nostra stessa piccolezza. Non sentiamo più il bisogno di nascondere la nostra fragilità o forse non possiamo più farlo. Così, resi più consapevoli delle nostre debolezze, riconciliati finalmente con quello che siamo, abbiamo una maggiore disponibilità a ritrovare il fratello perduto. A non vedere più il suo volto come una minaccia, a non proiettare su di lui i nostri sensi di colpa, a non vedere nell’altro o nell’altra qualcuno che ci ruba il posto che pensiamo ci spetti nel mondo, ma appunto a vederlo come avremmo dovuto fin dall’inizio, come un fratello, un compagno di vita, un dono di Dio. Come il volto benevolo di Dio stesso che ce l’ha dato.
Giacobbe-Israele per la prima volta fece spazio a suo fratello nella sua vita. Quell’inchinarsi sette volte è segno ripetuto del fare spazio, del dare il passo al fratello, del dire: dopo tutto nel mondo c’è spazio per tutti e due, non c’è bisogno di rubare una benedizione. Nostro padre Isacco aveva solo una benedizione da dare ma Dio non conta le sue benedizioni. Egli può benedirci entrambi.
La cosa particolare è che questo riconoscimento della nostra debolezza, del nostro essere piccoli e bisognosi del fratello che avevamo perduto non ci diminuisce. Questo è l’altro aspetto del mistero di questa storia dalle mille sfaccettature. Giacobbe-Israele non è stato mai così grande come quando ha smesso di voler essere il primo. E’ un lottatore, un combattente che vince quando perde e perde quando vince.
Questo è quanto dice anche Gesù di Giovanni Battista, colui che aveva detto una volta ai suoi discepoli riferendosi a Gesù: “Bisogna che egli cresca e io diminuisca” (Giov 3,30). Gesù disse di lui che non ci fu mai un uomo più grande di Giovanni (Luca 7,28). In questa linea egli disse ancora: “Il più grande fra voi sia come il più piccolo e chi governa come colui che serve” (Luca 22, 26).
Forse la maturità di un essere umano, e di un credente in particolare,  consiste proprio nel comprendere questa verità al cospetto di Dio, comprenderla anche attraverso un travaglio doloroso che può avvenire nella notte della vita, quando i contorni sono indefiniti, il futuro è incerto, l’orientamento è perso e ci sentiamo attaccati e non sappiamo perché e da chi. La storia di Giacobbe ci mostra quanto questo sentirci fragili possa farci bene, essere perfino per noi una nuova benedizione che però non è mai esclusiva e che sentiamo possa abbracciare anche la vita degli altri come abbraccia la nostra.
Siamo tutti claudicanti, abbiamo tutti le nostre incertezze, riconosciamolo, non sarà la nostra astuzia a salvarci. Ritrovare la comunione con gli altri fratelli e sorelle, questo ci darà pace.
Lasciamo che Cristo cresca in noi e vedremo il volto di Cristo nel fratello, nella sorella che credevamo perduta. Questa è opera di Dio, questa è la sconfitta gloriosa o la vittoria debilitante di cui abbiamo bisogno! Per vivere. Finalmente bene.