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FILIPPESI 2 – CRISTO, ESEMPIO DI UMILTA’

Cristo, esempio di umiltà 1 Se dunque v'è qualche consolazione in Cristo, se vi è qualche conforto d'amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione, 2 rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento. 3 Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, 4 cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri. 5 Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, 6 il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, 7 ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; 8 trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce. 9 Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, 10 affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, 11 e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.

Questa epistola, breve, è tra i documenti più straordinari che troviamo nel Nuovo Testamento.

Essa si presenta come certi anelli di brillanti che stupiscono per la loro lucentezza. Appena li muovi un po' ecco che un’altra faccia riflette di raggio di luce che colpisce la vista.

In tal modo definire quale sia il tema, o il pensiero dominate, non è impossibile ma riduttivo.
Molti hanno individuato nella gioia, nella letizia cristiana, che trova la maniera di esprimersi anche nelle situazioni più avverse della vita, il filo conduttore. E’ certamente vero. Ma non basta. In questi quattro capitoli si avvicendano temi e riflessioni tutti meritevoli di una riflessione.

Vero è che, al centro di questo anello prezioso, c’è una pietra di gran valore, uno smeraldo, che è proprio il testo di questo inno, che abbiamo appena letto e che molti conoscono a memoria, proprio come le strofe di una canzone.

Il primo grande tema di questa lettera è l’autore stesso, l’apostolo Paolo.
Lo studio storico critico non è riuscito a dare una risposta univoca alla datazione.
Paolo è chiaramente in prigione. Ma dove? A Roma, come si è ritenuto tradizionalmente, o piuttosto ad Efeso? Questo ne cambierebbe anche la data. In ogni caso, diciamo, e questo è importante per la nostra riflessione, che siamo a 4 anni oppure massimo a 10 dalla fondazione della Chiesa di Filippi, a cui Paolo stesso aveva partecipato in maniera decisiva.
Paolo ha la coscienza che la sua vita è ormai giunta a capolinea
Dalle cose che lui scrive, parlando di sé e del suo stato d’animo, sembra che ci sia un forte presagio di morte. L’apostolo si sta preparando a lasciare questa vita.
Il processo di adattamento alla prossima evenienza non è facile.
La domanda fondamentale è che senso abbia avuto tutto quello che egli ha fatto fino a quel momento. E se, anche per la chiesa, egli non abbia piuttosto faticato invano.
Da una parte in questo volgere il suo sguardo verso la fine, l’uomo Paolo, sembra essere pronto:
“Per me vivere è Cristo e morire e guadagno”.
Egli è profondamente convinto che la sua vita sia nelle mani di Dio, e che per quanto possa dispiacere lasciare questa vita, lo aspetta una condizione migliore e di comunione col Signore, in cui non dominano più la fatica e il dolore.
Ma da questo pensiero egli è trattenuto, proprio dalla comunità, anzi dalle chiese. Lasciare la vita che effetto avrà per loro? Che significherà la morte di Paolo in carcere, per mano del potere imperiale per
quella giovane comunità? Ci sono tra i suoi membri alcuni giovani coraggiosi, e donne di carattere e volitive. Ma basterà?
Questi pensieri emergono nel suo scritto e paradossalmente, rendono Paolo ancora più vulnerabile, perché egli stesso non sa verso come orientare il suo cuore e i suoi pensieri.
Solitamente, commentando il testo centrale costituito dall’inno cristologico, noi ci soffermiamo sullo “svuotamento” o kenosi, di Cristo, dal suo potere divino, per condividere la precaria e mortale condizione umana. E’ giusto, ma dobbiamo osservare una prima importante corrispondenza. Infatti in questa lettera il tema è anche lo “svuotamento” dell’apostolo stesso.
Egli sta sperimentando sulla sua stessa pelle la sofferenza della croce. Ed ha raggiunto un grado di consapevolezza tale che lo induce a pensare che tutto ciò di cui è andato fiero per molto tempo, il suo blasone ebraico, il suo zelo per la legge e le sue virtù morali legate all’obbedienza a questa, in realtà sono “spazzatura”. L’uso del termine deve farci riflettere.
Che cosa si fa con la spazzatura? Noi, oggi, la mettiamo in un sacchetto e la smaltiamo ecologicamente nella differenziata. Allora veniva portata in discarica dove veniva bruciata.
Paolo prende il meglio di quel che lui è, della sua identità, della sua rispettabilità, della sua scienza, e dice: va tutto nello stesso sacchetto…

La croce di Cristo sta divenendo la sua stessa biografia, in un processo di rinuncia a ciò che si ha e a ciò che si è. Per me vivere è Cristo e morire è guadagno. E’ una frase simile a “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. La kenosi, lo svuotamento è totale: Paolo arriva a perdere completamente se stesso.
Lo smeraldo centrale, stabilisce così una corrispondenza di riflessi, con la situazione esistenziale dell’apostolo. Lo svuotamento di Cristo informa anche questo processo di spoliazione dell’apostolo per amore dell’evangelo.

Il secondo tema è, ovviamente, quello della comunità.
Si tratta di una chiesa generosa, che in più di una occasione è venuta incontro alle esigenze materiali dell’apostolo. Di essa fanno parte persone intellettualmente vivaci e di gran fede.
Epafròdito, ad esempio ha affrontato grandi disagi per far avere a Paolo un aiuto materiale. E, il poverino, si è perfino gravemente ammalato, al punto da essere sfiorato dalla morte. L’apostolo ne parla con grande tenerezza.
Questa chiesa, comunque dà qualche preoccupazione all’apostolo.
Essa sembra insidiata da due ordine di problemi, uno che veniva dall’interno e un altro che, molto più probabilmente, veniva da fuori.

I problemi interni risiedevano nel fatto che c’erano alcuni tra i predicatori che erano mossi da invidia e rivalità. Alcuni, evidentemente, consideravano il pulpito come un luogo di visibilità e di prestigio. Ma anche erano mossi da bassi interessi personali.

Come se non bastasse c’era una minaccia che veniva da fuori da cristiani giudaizzanti che facevano della circoncisione e della osservanza della Legge il loro segno distintivo. Essi vantavano una autorità ed. evidentemente. c’era chi cedeva a queste pretese.
Alcuni, non sappiamo ben dire se i primi o i secondi, addirittura attaccavano Paolo, sebbene fosse prigioniero, insinuando che la sua stessa condizione parlava del suo carattere perdente: “In tal modo essi pensano di potermi arrecare qualche ulteriore afflizione”, scrive l’apostolo. Che tristezza!
Infine, come non bastasse, anche tra membri stimati c’erano delle rivalità. Egli fa riferimento a Evodìa e Sintìche, donne riconosciute della chiesa.
Come finirà questa storia? Questa chiesa sboccerà dando frutti di grazia per la predicazione dell’evangelo nell’intera regione, oppure, dopo aver avuto breve vita imploderà su se stessa?
Qui scorgiamo la seconda corrispondenza tra la pietra preziosa dell’inno e la condizione spirituale della chiesa.
Gli studiosi ci dicono, che questo testo che abbiamo letto, a motivo del suo lessico, sia una citazione, e nello specifico, il testo di un canto, che probabilmente la comunità conosceva e che riassumeva, in due strofe, il contenuto dell’Evangelo.

Nella prima strofa si racconta della decisione e della venuta del figlio di Dio che è mosso dal grande amore per l’umanità e che si incarna al fine di colmare un gap tra Dio e l’essere umano altrimenti incolmabile.
Questa discesa è accompagnata da uno svuotamento, e poi diremmo da uno sprofondamento nella condizione umana, che lo porta a sperimentare la morte.

La seconda strofa, è quasi un contrappunto alla prima e parla di una sorta di “vendetta di Dio”, che non solo riscatta Gesù dalla morte, ma rende il suo nome il più alto di tutti. Dinanzi a lui il mondo intero dovrà inchinarsi in segno di sottomissione. Se la prima strofa parla di una discesa per amore del figlio verso l’umanità, la seconda parla di una risalita in cui a prevalere è l’amore del Padre per il Figlio
Gli studiosi sostengono che in questa citazione, c’è però, anche la firma di Paolo, in una piccolissima aggiunta, ma decisiva. Quando dice: “Trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte”, a questo punto ci sarebbe l’aggiunta di Paolo “e la morte di croce”.

La scena me la immagino così: Paolo dice, ve la ricordate quella canzone, quell’inno?
E poi comincia a cantarlo per i Filippesi, aspettandosi che mentre i Filippesi leggono la lettera facciano altrettanto. Le parole vengono richiamate alla memoria, una dopo l’altra.
Poi si arriva ad un punto in cui Paolo sorprende i suoi coristi improvvisati: il ritmo si rompe, la rima inciampa: “e la morte di croce”.
Un modo fantastico, geniale direi, col quale Paolo richiama la comune fede del canto, ma pone un accento che determina una svolta: la croce. Perché è solo la croce che è decisiva per descrivere la condizione dell’apostolo di prigioniero per l’evangelo prossimo al martirio, ed è solo la croce che si offre per stabilire una seconda e fondamentale corrispondenza, essa è offerta quale fondamento della comunione tra membri della chiesa.

Infatti posta questa corrispondenza, che valore potrà darsi a rivalità e vanterie che esistono nella comunità? Quanto sbiadiscono perfino alcune chiacchiere tra diversi leader uomini e donne della chiesa? E “quelli del blasone”, che si vantano della loro circoncisione della loro appartenenza etnica, cosa hanno da vantarsi dinanzi alla croce di Cristo?

Ecco, un altro gioco di riflessi tra la pietra centrale e una pietra laterale.
A proposito di preziosi, sapete come vengono sovente chiamate queste pietre di valore? Gioie! da cui anche la parola gioiello!
L’analogia regge. Quel che incastona queste pietre tra loro e le rende in questa lettera un unico strepitoso oggetto di valore, è appunto la gioia.
E’ la gioia, che rende la fine, altrimenti tragica di Paolo, un compimento del suo apostolato, che si dimostrerà decisivo per il futuro della cristianità tutta.
E’ la gioia che si offre a questa chiesa, come via di uscita da piccole e grandi meschinità, per divenire chiesa del dono, che invia il suo aiuto al detenuto Paolo.
E’ la gioia che trasforma l’amore tragico della prima strofa dell’inno, in un canto trionfale di vittoria: Noi trionferemo. Nel mio cuor sono certo che noi trionferemo. Perché Cristo stesso ha trionfato sulla morte.