Questo sito web utilizza cookie per fornirti la migliore esperienza di navigazione.

Il problema del male

Il problema del male è quello della sua realtà e presenza nel mondo e nella storia, quando affermiamo contemporaneamente che c’è un Dio buono e che è onnipotente. Questo ci permette di pre­sentare il dilemma posto da Epicuro e Democrito a Platone e ad Aristotele: O Dio non è buo­no (contro Platone), o Dio non è Onnipotente (contro Aristotele).  Alcuni riconoscono la vigenza di questo dilemma.

Impostato il problema occorre esaminare la condizione e natura del male, e poi passare a vedere quale sia la sua relazione con Dio.  Cominciamo con l’AT e le tre risposte classiche date dalla teologia ebraica al problema del male. Iniziamo con Amos, poi vedremo la Torah e finalmente la risposta della Sapienza.

Direi in primo luogo, che la risposta di Amos "non accade nessuna sciagura in città se Dio non la invia" (3,6), dobbiamo interpretarla in senso storico stretto, si riferisce a quelle sciagure annunciate come punizione per la colpa collettiva e soltanto a quelle, non ha un valore indefinito poiché il profeta non risponde ad una domanda sull’origine di ogni male, ma si occupa del male contingente che giudica secondo la parola divina.  Se Dio è sovrano allora nulla di quello che accade gli può essere straneo. Anche Calvino la pensava così, questa idea è alla base della dottrina della predestinazione che ora non possiamo sviscerare. La risposta di Leibnitz (che è quella della Sapienza ebraica), che Dio non vuole il male, ma che lo permette perché altrimenti non si raggiunge il bene, è insufficiente.  L’idea di fondo sarebbe che noi viviamo “nel migliore dei mondi possibile”. Inoltre in questa idea sapienziale del male implica che Dio fa un uso strumentale del male, anche se lo utilizza soltanto come mezzo pedagogico di correzione e per allontanarci dal peccato. Questa idee hanno dominato il pensiero cristiano per secoli e non sono tuttora state abbandonate completamente da tutti, vi sono ancora delle teologie che la pensano in questo modo. Le domande fondamentali persistono: Perché ha creato Dio un mondo nel quale il male è presente?  E' Dio responsabile del male?  Può soppri­merlo?  E se può, perché non lo fa almeno la sofferenza degli innocenti, dei bambini senza colpa?

La risposta che troviamo nella Torah merita una discussione accurata, ma non abbiamo il tempo per farlo. Le storie che ci sono giunte costituiscono dei miti primordiali riferite all’origine delle cose in Dio e nell’uomo. Fondamentalmente possiamo dire che la riflessione sul male è ora spostata sulla questione della libertà di determinazione dell’essere creato a immagine e somiglianza di Dio nell’ordine della creazione e all’esistenza di esseri spirituali nel mondo dello spirito. Spostando il problema dalla natura del male a la costituzione libera delle decisioni morali che hanno diretta conseguenza sul mondo materiale introducendo la morte e la sofferenza,  non lo risolviamo.

A questo punto noi possiamo fermarci e non andare oltre, potremmo dire ad esem­pio, queste domande non mi interessano, un giorno Dio stesso ci rivelerà faccia a faccia questo e tanti altri problemi.  Ma, se teniamo conto delle domande che ci pone la società, il mondo che ci circonda, allora dovremo tentare di dare qualche risposta, o almeno accennare ad una possibile risposta, altrimenti non siamo più teologi, diventiamo scettici sulle nostre possibilità attuali di pensare e confrontarci con i problemi dei nostri contempora­nei.  Alcuni affermano, ad esempio, che Dio si è Autolimitato al momento della creazione.  Dio non può cancellare il Male, non perché non possa, ma perché essendo il male l'espressione neces­saria della realtà finita del mondo, cancellando il male cancel­lerebbe di fatto la realtà.

Ma, allora ci si presenta un'altro dilemma: se Dio è impo­tente, sarebbe anche Sofferente.  E qui entra con forza il ruolo di Gesù, il Messia sofferente, e se le sofferenze di Gesù (di Dio) per la redenzione dell'umanità (e possiamo aggiungere della chiesa come corpo di Cristo) sono finite, o se siamo ancora nel Venerdì di Passione, nella notte oscura; se in ogni innocente che soffre, se in ogni male che reca violenza, distruzione e dolore Dio è presente (e sofferente), o assente (indifferente); se Dio solidarizza e come con l'innocente, con la vittima, con l'ango­sciato, o se il grido del crocifisso, di ogni crocifisso nella storia rimane inascoltato (teologia della sofferenza di Dio).  A questo punto dobbiamo fare una scelta, siamo arrivati ad un bi­vio.  Dobbiamo scegliere fra una theologia crucis, o una teologia della gloria, cioè, dobbiamo prendere sul serio l’incarnazione di Dio in Cristo per umanizzare Dio, o credere che l’incarnazione sia soltanto una parentesi temporale e restituire a Dio una divinità impassibile, dobbiamo por­tare al nostro mondo senza giustizia o allontanarlo deponendolo nel suo triangolo metafisico.  Occorre dalla prospettiva della croce rivedere il concetto di onnipotenza, altrimenti ci ritroviamo con l’Iddio greco il cui sommo attributo è l’indifferenza, con un Dio che sarebbe l'Indifferente sin pathos né sentimenti al di là di tutto, insomma un Dio che non ha niente a che vedere con il Padre di Gesù Cristo.  Ma, attenzione se intra­prendiamo la strada di una theologia crucis, ad un certo punto dovremo fermarci e fare un'ulteriore riflessione sul posto che la salvezza occupa rispetto il male; e se scegliamo l'altra strada siamo consci che le nostre parole possono perdere qualunque si­gnificato per l'uomo che deve ascoltare il nostro annuncio dell'evangelo.  Un ultimo avvertimento, se spogliamo Dio dall'on­nipotenza, non carichiamola sull'uomo, e non pensiamo al soggetto essere umano come ad esempio, in possesso di una libertà assolu­ta, franca da ogni limitazione o determinazione.  Corriamo il ri­schio di sostituire l'onnipotenza di Dio con l'assolutezza della creatura.  La questione del male interroga l'onnipotenza, ma an­che la natura finita e limitata dell'uomo, il suo essere inerme di fronte alla notte oscura della sofferenza.

Il male invece e­siste ed è inerente alla realtà finita del mondo e della esisten­za, ma esiste in quanto privazione o limitazione del bene, o come limite posto all’esistere, cioè non possiede essere in se stesso, ma in quanto carenza di essere.  In più, Dio ha voluto questo mondo, e l'ha voluto così com'è, a meno che qualcuno pensi che Dio non sia sovrano della storia e del creato.  Dio ha voluto un mondo limitato da e in se stesso, il male non è un ostacolo alla realizzazione piena del mondo e della esistenza, è un dato, una realtà come le altre che bisogna integrare nel complesso della realtà che conosciamo.  Il male non può essere immaginato come mezzo per qualcosa di diverso del male stesso, è qui, appartiene alla realtà, è una delle sue possibilità.  In ultima analisi, contro ciò che diceva la sapienza di Israele, il male nulla giustifica e non serve a nulla.  Dio non si serve del male.  Il male è una condizione della possibilità e realtà del mondo.  Domande come: poteva Dio creare un mondo migliore? O considerazione del tipo: Dio ha creato il migliore dei mondi pos­sibili, non hanno senso.  Perde la sua forza anche il dilemma e­picureo di fronte a questa impostazione appena accennata.  L'esi­stenza del male, così pensata, non resta potenza a Dio.  Un Dio però, che va pensato non come il manipolatore del tutto, ma come quello che rispetta l'essere profondo delle sue creature immerse nella loro limitatezza.

Ma, se la radice del male si trova nella condizione finita della realtà, ad ogni livello di realtà si corrisponderà un certo grado di male, un grado maggiore di finitezza quanto più conscia di sé sia la realtà creata.  Per una montagna, per un fiume, per una pianta, un albero, una balena un uccello e un essere umano, è chiaro che il grado del male morale e del male fisico saranno completamente diversi.  Precisamente, nel caso dell'essere umano, l'unico essere creato libero e capace di discernere il bene dal male, la sua creazione e inserimento nella realtà crea e apre una nuova dimensione della realtà stessa.  Da quel momento in poi c'è, di fronte alla volontà di Dio, una volontà che è in grado di resistere e opporsi alla volontà divina.  La dimensione della realtà umana è sempre aperta, inconclusa, ad ogni momento l'uomo può scegliere, egli rimane sempre incompiuto, in realizzazione.  Quando concepiamo la condizione umana in questi termini, evitiamo una obiezione devastante che si presenta al credente:  Perché ci ha fatti Dio finiti e sofferenti se alla fine ci salverà?  Il ma­le, giustamente, interroga il credente e l'ateo ugualmente.  Se noi crediamo in questa perenne apertura della vita umana, allora crediamo nelle diverse possibilità aperte dinanzi ad ogni esi­stenza.  Quando una esistenza raggiunge la piena realizzazione, l'estasi, allora ci si rallegra.  Ma quando un'esistenza viene stroncata, esposta alla sofferenza, allora ci interroghiamo tut­ti: Perché creare un mondo e una esistenza così esposti alla sof­ferenza e alla disgrazia?  Ha un senso questo mondo con tante vittime innocenti?  Esiste un luogo per il bene?  Adesso le no­stre risposte devono diventare più sobrie e consapevoli.  Perché non possiamo dimenticare che la domanda radicale è in ultima ana­lisi, qual'è il senso del male?  L'idea del male, al contrario di ciò che affermano Pannenberg ed altri, dev'essere a tutti i costi armonizza­ta con l'idea di un Dio Buono e Onnipotente.  Perché se Dio non è Buono, possiamo dire come Lutero, allora dove andremo, dove tro­veremo un Dio di grazia che salvi i peccatori.  E se Dio non è Onnipotente, ma impotente, allora a cosa ci potrebbe mai servire un Dio che è solo in grado di soffrire con noi e nient'altro, di cosa ci salverebbe se non può salvare se stesso?  Ma il nostro tentativo di conciliare una teologia della croce con una teologia della gloria, dovrà rispondere a questa domanda seriamente: Perché così tanti ritardi, pieghe, svincoli per arrivare alla salvezza, perché tante vittime e tanta sofferenza di innocenti?

La tradizione cristiana di fronte alla questione dell’origine del male, ci offre due ten­denze.  La prima è la paolina‑agostiniana che, incentrata sul peccato di Adamo (che i catolici chiamano originale Rom 5), spiega il male come il risultato della responsabilità personale o collettiva.  Il male è il male merita­to come retribuzione giusta per il peccato.  Insiste sulla colpe­volezza e si sofferma sul malum morale.  La seconda tradizione o tendenza è rappresentata dalla tradizione sinottica, più evidente nel Vangelo di Luca.  L'impostazione è la stessa del libro di Giobbe, si parte dal punto di vista della vittima che subisce il malum physicum, di fronte al quale è molto sensibile.  Il male fisico, il male disgrazia viene esperimentato come sofferenza da parte dell'innocente, questo non può essere colpevolizzato per il male che subisce, c'è un responsabile del male che è denun­ciato e accusato, mentre l'innocente è "salvato", guarito, riscattato dall’opera divina.  Gesù stesso opera dei prodigi, dei miracoli rivolti ai sofferenti da ogni sorta di male: fame, malattia, possessione, etc.  Inoltre attraverso la sua predicazione (parabole, beatitu­dini, discorsi) annuncia ai poveri, ai diseredati, le vittime più esposte alla sofferenza, il Regno di Dio e la salvezza, questo è il suo lieto messaggio per i poveri, Dio stesso li salva.  Gesù combatte il male in tutte le sue manifestazioni, la sua azione va rivolta alla sconfitta del male sofferenza.  Egli stesso prende su di sé la contraddizione e il limite, assume ogni nostro male, la sua croce è la risposta di Dio al problema della sofferenza.  Gesù parla poche volte del male colpa, e sempre per accusare i colpevoli.  Per Gesù, la gravità del male morale (ad esempio l'e­goismo), risiede sopratutto nel fatto che provoca e rende più grave il male disgrazia dell'innocente.  Purtroppo, nella nostra cultura occidentale prevalse l'impostazione più filosofica e teo­logica di Paolo e Agostino.  La riflessione sul male morale ha sostituito le considerazioni sulle vittime, fino al punto che spesso si è interpretato il male disgrazia come punizione del ma­le morale, del peccato (in Giovanni 9, la domanda dei discepoli di fronte al cieco di nascita, è paradigmatica: Chi ha peccato, lui o i suoi genitori?).  In Amos invece, la prospettiva è diver­sa.  La punizione per l'ingiustizia è l'esecuzione di una sen­tenza dovuta al male morale che ha provocato il male sofferenza nelle vittime innocenti; si tratta dunque piuttosto di un’affermazione della giustizia che non soltanto si vendica sul colpevo­le, ma che riscatta l'innocente.

Gesù non spiega il perché del male, lo assume, lo carica sul­le sue spalle e soffre e muore dinanzi a Dio.  Nella parola del crocifisso: Dio mio Dio mio, questo morire dinanzi a Dio acquista un significato determinante e ultimo, ricordiamo che il nome divino El, con cui Gesù invoca Dio con l’aramaico Elì, è costruito nell’AT con dei complementi come El colui che è dinanzi a me, colui che è affianco a me o sopra di me o alla mia destra.  Il crocifisso, l'innocente muore dinanzi a Dio, egli non è assente, è testimone coinvolto della morte.  Perché il crocifisso muore senza Dio: perché mi hai abbandonato? L'oscurità nel mezzodì di quel giorno ha un alto valore simbolico.  Il Venerdì di passione è la notte oscura dell'anima, il crocifisso muore solo, abbandonato, la sua lotta contro il male e la sofferenza si concludono con un fallimento apparente.  La sofferenza lacera il suo corpo, la morte si avvicina nelle pieghe delle ferite.  Il nostro discorso sull'onnipotenza di Dio, dicevamo, deve passare necessariamente, senza rimedio, dall'impo­tenza di Gesù (di tutti gli innocenti) sulla croce.  Il problema adesso è questo, quale sarà la risposta di Dio a questa morte?  Nella Bibbia si parla poco dell'onnipotenza divina.  Si parla molto di più del Regno di Dio. Il Regno è una sorte di realtà presente e assente, è all'interno della storia ma non nella sua pienezza.  Si tratta di un potere opposto al potere del male e che bisogna intendere come la potenza dell'amore, della miseri­cordia, della compassione, della riconciliazione e del perdono.  Nella notte oscura scintillano le stelle preludio dell'alba che sta per venire.  Il Regno non è costituito da una sola dimensio­ne, il presente, ma è sopratutto speranza e futuro.  Nel progetto speranza di Moltmann (segnalo sopratutto due opere: Il Dio croci­fisso, Teologia della Speranza, Bologna, Queriniana), troviamo una delle esposizioni più ricche di questa dimensione della fede cristiana.  La speranza cristiana si fonda sopratutto in un fat­to: il non senso del tutto è vanità, non avrà l'ultima parola.  L'ultima parola della storia del crocifisso non è la morte che penetra mortale in lui per risucchiargli ogni traccia di vita, la sua storia non si conclude con la tomba sigillata e il rimanere in preda alla morte.  L'Iddio di Gesù il Cristo è presente in Gesù come Dio sofferente, ma è sopratutto presente nel futuro, è un Dio del futuro, egli sarebbe la forma del futuro e della speran­za.  Verso quel futuro egli conduce la storia, non dall'ester­no, ma dall'interno (la regola dell'incarnazione è essenziale per capire questa presenza/assenza di Dio).  Dobbiamo evitare di ca­dere in una forma estrema di teologia del processo, secondo la quale Dio sarebbe incompiuto, aperto, e che nel processo di cre­scita dell'uomo e del creato è coinvolto Dio, che cresce con noi.  Neanche la creazione è compiuta nella sua totalità.  Noi speriamo in Dio, nostro futuro, ma speriamo anche i nuovi cieli e la nuova terra.

Dunque, la risposta del cristianesimo al problema del male non può essere soltanto la croce.  Perché alla croce è saldamente unita la Risurrezione di Cristo.  La  risurrezione di Gesù è la grande anticipazione (la prima di molte), provvisoria, sì, ma che ci aiuta a conservare la capacità di lotta e resistenza contro il male e a serbare la speranza del futuro.  Perché anche noi dobbi­amo essere coinvolti nella lotta contro il male.  La nostra forza non è in noi, proviene dalla potenza che il Regno libera nella storia.  La prima manifestazione di questa potenza dell'amore che combatte il male è appunto la risurrezione di Gesù, la seconda l'arrivo dello Spirito, la terza, la predicazione dell'Evangelo, della salvezza nel nome di Gesù.  In questi tre elementi trova la sua forza il cristianesimo e il credente.  Dio è la risurrezione dei morti, e dunque la risposta definitiva al crocifisso, ad ogni croce che noi abbiamo innalzato nella storia.  Dio è anche la me­moria delle vittime, che non dimentica nessuna, e che risusciterà ognuna di esse.  Il Film Schlinder list ci aiuterà a capire il valore sacro del ricordo delle vittime.  La storia di Caino e A­bele si conclude con la morte senza colpa di Abele, il suo san­gue, il sangue del giusto, parla, conserva la memoria di quella sofferenza ingiusta e la presenta dinanzi a Dio.  La domanda con­turbante fatta alle vittime dell'olocausto che riuscirono a so­pravvivere, viene posta così nel film: perché non vi siete la­sciati morire, perché avete resistito?  La risposta è sconvolgen­te: per ricordare le vittime, scrivere i loro nomi, perché non siano cancellate né dimenticate, i loro nomi devono rimanere per sempre iscritti nella nostra memoria.  Loro diventano la me­moria di Dio, quelli che devono ricordare a Dio le vittime e quelli che furono i loro carnefici.  In Israele il ricordo ha qualcosa di sacro.  In Giovanni ci si parla di un libro, il libro della vita ove il nome dei testimoni, i martiri, viene scritto, appunto perché nessuna vita innocente si perda, perché il loro diritto non sia dimenticato, perché un giorno sia fatta giustizia ad ognuno, il giorno, appunto della risurrezione.  Il nostro lun­go percorso ci ha portati di fronte a una croce e a una tomba vuota.  Non dobbiamo identificare totalmente il male con la fini­tezza né con la limitatezza, questo resta forza alla colpevolezza e alla responsabilità personali dell'aguzzino (il nazista che di­ce alla fine io ho fatto soltanto il mio dovere, ho ubbidito a degli ordini).  Il male va inteso anche come frustrazione della vita e del diritto, alla quale risponde Iddio con la risurrezio­ne.  Dio si rivela a noi come Spirito del futuro nel presente, noi dobbiamo prendere una decisione di fronte a questo Dio: af­fiancarlo per poter formar parte del futuro nel presente, o ri­fiutarlo e rimanere vittime del passato e della morte nel presen­te e, più tragicamente, nel futuro.  Una semplice conclusione: la fede cristiana non risolve il problema filosofico o teologico del male, non ci fornisce tutte le risposte possibili, la fede cri­stiana ci offre qualcos'altro, la potenza del futuro che ci aiuta a combatterlo nel presente, a sconfiggerlo nella nostra biografia subendolo come fece Gesù, che ci aiuta a crede­re e sperare ancora contro ogni speranza, nel nostro stesso ve­nerdì di passione, la notte oscura del dolore, del limite alla nostra esistenza così fragile.