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Il volto di Dio

Mosè chiede di vedere il volto di Dio, questa sembra essere l’essenziale di questa esperienza qui tratteggiata in modo antropomorfico. Mosè vuole vedere il volto di Dio, la domanda sarebbe cosa aveva visto fino a quel tempo nella sua intensa comunicazione con Dio? Facciamo due premesse anzitutto. La prima è di carattere molto generale e riguarda la lingua ebraica antica, le sue insidie per noi occidentali abituati a un linguaggio a carattere logico formale, ogni parola ha uno spettro di significati. In ebraico le parole si formano a partire dai radicali e si arriva al significato attraverso un complesso sistema analogico e figurativo. Per fare un esempio plastico, le lingue europee sarebbero l’equivalente dei quadri del rinascimento, mentre la lingua ebraica sarebbe l’arte astratta di Picasso o surrealista di Dalì. Al significato si giunge attraverso una catena di metafore e non al modo diretto di collegare immagine e parola nelle lingue occidentali. Per la parola hesed (che alcuni traducono costantemente  vanità nel libro di Ecclesiaste o Qohelet) la lingua ebraica ha sedici significati diversi, con uno spettro che va da fumo a vapore, da inconsistenza a trivialità. La regola è che tutte le parole che vengono da un radicale sono “imparentate”, fanno riferimento ad un’idea primigenia dalla quale tutte partono. Questa digressione è importante perché la comprensione di questo testo dipende dai valori significanti che daremo a due parole kabod e tubi. Poi cominceremo a parlare dei significati di queste due parole in relazione ai radicali di cui provengono. In secondo luogo, per capire questo testo dobbiamo conoscere e capire il contesto in cui è situata questa esperienza. Procediamo con ordine. Vediamo anzitutto il contesto precedente, il capitolo 32.

Questo capitolo racconta la storia del vitello d’oro. Ricordiamo ora l’essenziale di quel tentativo di identificare e dare forma al Dio degli schiavi. Mosè era salito sul monte Sinai e durante quaranta giorni aveva ascoltato la parola di Dio che aveva inciso sulla pietra le dieci parole che avrebbero trasformato l’orda di schiavi in popolo. Dio aveva parlato a faccia a faccia con il suo servitore. Verrebbe da chiedersi cosa aveva visto e udito Mosè durante quei quaranta giorni. Mentre il liberatore era sulla montagna, fra gli israeliti si erano insinuato il dubbio e la paura. Alcuni pensavano che Mosè era ormai morto, scomparso e che loro si trovavano in trappola in mezzo al deserto e in pericolo di morte. Sorge allora fra loro un desiderio di “avere” un dio, di dare una forma, un’immagine a questo Dio che li aveva liberati dalla schiavitù. Il vitello d’oro si spiega secondo la logica umana, Dio si è rivelato come un Dio senza forma che esige un’adorazione spirituale, non si deve fare immagine o scultura della divinità e meno che mai adorare quello che gli esseri umani possono forgiare. Gli ebrei dunque fanno l’opposto di quello che Dio aveva comandato loro, tradiscono l’essenziale dell’alleanza che Dio ha stabilito con loro, forgiano una divinità a forma di animale (venivano dall’Egitto che dava una forma semiumana e semianimale alle loro divinità), l’adorano e dicono la confessione di fede “tu sei l’iddio che ci ha tratti dall’Egitto”, e di conseguenza chiedono a questa simulazione di dio di salvarli, di trarli fuori dal deserto. Si consuma in un istante di smarrimento la forma più totale di travisamento dell’alleanza. Commettono una serie di peccati imperdonabili prima ancora che l’alleanza abbia avuto opportunità di decollare come progetto storico di una nazione attorno al suo dio. Quando Mosè scende dalla montagna e vede l’idolatria alla quale si erano abbandonati (anche suo fratello Aaronne e la sorella Myriam) rimane sgomento perché sa che quel peccato non ha riscatto, comporta la morte, la distruzione di tutti quelli che hanno partecipato, la totalità del popolo. Le tavole della legge cadono a terra e si frantumano (la pietra si rompe, il patto non ha più alcun valore) rimane adesso soltanto l’attesa della punizione che distruggerà i colpevoli.

Il capitolo 34, il contesto posteriore, racconta invece il rinnovamento del patto, Dio ha avuto misericordia e non solo non ha distrutto la totalità del popolo, ma ha rinnovato solennemente le sue promesse a Israele. La restaurazione dell’alleanza segna il punto culminante della rivelazione divina nel Sinai. Il quadro ora è completo, fino a quel momento Israele ha conosciuto Dio come colui che è stato, che è e che sarà, lo hanno conosciuto attraverso le azioni potenti che Egli ha compiuto in Egitto contro gli egiziani, e nel deserto in loro favore. Adesso conosceranno l’altro Nome di Dio (il che significa che Dio non ha un solo Nome con il quale invocarlo) che suona così Io avrò misericordia di chi avrò misericordia. Il capitolo trentatre ci racconta questo passaggio, ci spiega cosa sia successa e come Mosè, tutto Israele abbia fatto esperienza e conoscenza di Dio che giudica con Giustizia e perdona con misericordia infinita.

Cos’è successo dunque? Mosè ha chiesto di vedere (contemplare) la gloria di Dio (kabod e non shekinà che è la gloria divina associata alla sua presenza invisibile in mezzo al suo popolo), l’uso di kabod che è la parola per gloria associata al volto divino (e dunque in senso proprio la luce o trasparenza ultima e definitiva di Dio), insinua che quello che Mosè vuole vedere non è ormai Dio all’opera nella storia, di questa visione o  intuizione di Dio è piena la sua esperienza dal rovetto incandescente che brucia senza consumarsi, a tutte le esperienze collegate all’uscita di Egitto e ai miracoli compiuti da Dio nella terra di schiavitù per piegare il rifiuto di Faraone di riconoscere l’Iddio degli schiavi, alla fuga dall’esercito il giorno che Dio aprì il mare, o tutte le esperienze del deserto. Mosè vuole vedere qualcosa di più consistente, se andiamo ad analizzare il peccato connesso con la costruzione del vitello d’oro, noteremo che è proprio questo il peccato di Israele. Nel caso di Aronne hanno costruito un’immagine di Dio e hanno adorato la rappresentazione divina fatta con le loro mani. Mosè invece vuole vedere Dio, non pecca nel senso che non fabbrica un oggetto e lo chiama Dio, ma vuole vedere chi sia questo Dio di cui egli è portavoce. Forse, non si rende conto egli stesso di cosa stia chiedendo. In fondo è questo il pericolo del monoteismo che crede in un Dio che è Spirito, che non può essere visto dall’uomo. Ma perché non può essere visto Dio? La risposta la troviamo nel diniego divino: l’essere umano non può reggere la visione di Dio. Aronne per vedere costruisce un artefatto, Mosè per vedere vuole contemplare (capire?) Dio, non è possibile nessuna di queste due pretese. Dio non può essere contemplato come non può essere capito dalla ragione umana, e irriducibile ai nostri tentativi di ridurlo ad oggetto in nostro possesso o a immagine, idea del nostro pensiero. Ma comunque, vi è una possibilità per l’uomo di “vedere o contemplare” Dio, e questo è il contenuto teologico più importante di questo nostro brano. Dio può essere “visto” attraverso le tracce che il suo passaggio lascia nella storia degli esseri umani negli eventi in cui Dio è intervenuto. Questo  è detto in modo antropomorfico: Dio dice a Mosè che potrà vedere un risvolto del suo mantello colto alle spalle, Mosè dalla fenditura della roccia potrà dunque contemplare o capire  “un aspetto” dell’intervento divino (al suo passaggio in un determinato evento storico umano in cui egli è intervenuto) nella storia. Incontriamo Dio nella storia, nel tempo umano perché Dio agisce nel corso degli eventi umani per condurre la storia verso la redenzione finale dell’umanità. Come conclusione teologica non è poco questo risultato.

Ma la parte più importante è da venire, il nostro testo contiene un altro importante insegnamento. Cosa ha visto ora Mosè dalla fenditura della rocca in quel momento concreto della storia quando Dio è intervenuto nella crisi del vitello d’oro? Cosa ha rivelato Dio di se stesso attraverso la rivelazione del secondo nome che dà a se stesso? Nella prima rivelazione di Esodo 3 Dio ha rivelato a Mosè il suo primo nome, il nome con il quale sarà invocato nel processo dell’Esodo: YHWH significa Io sono colui che sono stato, che sono e che sarò. Vale a dire voi mi conoscerete attraverso le opere potenti che compirò nella vostra storia per salvarvi. Dio si rivela come Dio dei padri, che ascolta, vede le sofferenze attuali di Israele, si commuove nei visceri di misericordia e decide di salvarli dalla schiavitù e di punire gli schiavisti storicamente, con giudizi che compirà nella loro storia. In questo modo sarà conosciuto come Colui che salva gli schiavi ma anche come Clui che giudica il peccato e lo condanna nella storia. Adesso abbiamo una situazione molto diversa, Dio è effettivamente colui che giudica il peccato, ma adesso a peccare è in un modo irreversibile, a peccare del peccato imperdonabile, il peccato che è abominio e comporta la distruzione è stato tutto Israele, tutto il popolo tranne Mosè. Mosè è portatore delle dieci parole del Decalogo già formalmente sottoscritto  nel Sinai (capp. 19 e 20). Proprio le due prime parole condannano senza appello possibile, poiché sono  peccato imperdonabili chi fabbrica idoli e li adora, e chi sceglie un altro Dio al di fuori di Dio. La tragedia è immensa e terribile, si produce un vuoto abissale, prima ancora di iniziare il suo cammino come popolo di Dio, tutto Israele si è deviato, è caduto nell’idolatria più eclatante.  Cosa resta dunque da fare? Punire i colpevoli, Dio deve trovarsi un altro popolo incontaminato con cui iniziare un nuovo percorso salvifico? Questo è quello che ci dice la rivelazione del primo nome di Dio. Ma ora Dio rivela a Mosè il suo secondo Nome che è indicato con queste parole: il mio Nome è Io avrò misericordia (hesed) di chi avrò misericordia e perdonerò chi perdonerò. Questo secondo Nome rivelato mostra l’essenziale del carattere divino: Dio agisce nella storia per salvare e per giudicare, e il suo giudizio non è per la distruzione del peccatore ma per la sua salvezza. Anche quando Dio punisce il peccatore, sarebbe la naturale conclusione, non lo fa per distruggerlo ma per salvarlo. Effettivamente Dio non distrugge tutto Israele, Dio perdona e ridà a Mosè le dieci parole che ricostruiscono l’alleanza, poiché la parola di Dio crea, è efficace, si cancella il peccato e si dà a Israele una seconda opportunità.

Tubi significa l’operare divino: cosa ha visto e capito dunque Mosè delle grandi opere di Dio. Ha imparato che fino a quel momento non aveva visto niente, che i grandi miracoli del rovetto che ardeva senza consumarsi, le dieci piaghe che hanno sconvolto e sconfitto Egitto e le sue divinità, che il mare aperto o tutti i miracoli contemplati nel deserto, dalla roccia che conteneva acqua per dissetare un popolo, alla manna quotidiano che saziava la fame nel deserto dove non si può seminare, erano nulla paragonati alla vera grandiosa opera della grazia divina che consiste nel perdonare il peccatore, nel salvare coloro che si erano macchiati dal peccato senza perdono possibile. Adesso Mosè contempla finalmente il vero Dio che non è colui che ha colpito i primogeniti degli egiziani, non l’avrebbe fatto se si fossero pentiti e avessero lasciato partire Israele libero, ma Colui che avrà misericordia, che perdonerà e salverà i peccatori per pura grazia immeritata. Questo è l’Iddio che contempliamo nella croce, il Dio crocifisso che rinuncia all’onnipotenza per salvarci con la sua impotenza.