I canti del servo di Adonai in Isaia 2
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- Scritto da Martin Ibarra
50,4-9. Il terzo canto consiste in un lamento dove si proclama la fiducia in Dio perché si è certi dell’ascolto divino del proprio lamento. Parla un essere umano che è all’ascolto di Dio, come il discepolo è all’ascolto del maestro. Tutta la propria vita è orientata verso Dio perché sa che tutto quello che aspetta viene da Dio. Dio apre le sue orecchie perché possa ascoltare la parola (questa è una metafora della fede come dono divino). Non solo è all’ascolto di Dio, ma tutto quello che ascolta lo dice ai suoi fratelli, lo dice a quelli che sono stanchi e hanno bisogno di ascoltare una parola che dia forza e coraggio. Il discepolo ascolta l’insegnamento del maestro e poi lo comunica agli altri. Il contesto storico dell’esilio ci aiuta a capire il senso profondo di questa vocazione (ascolto-testimonianza). Non si tratta di un profeta nel senso classico (il nevi era qualcuno che aveva ricevuto la visione divina), ma piuttosto di qualcuno che ha ricevuto una vocazione totale all’ascolto della parola e alla sua trasmissione a quelli che hanno perso ogni speranza e non aspettano più nulla. Occorre svegliarli perché si rendano conto di essere ancora oggetto di grazia da parte di Dio. Il profeta classico riceve una parola di Dio e poi la comunica. Ora piuttosto abbiamo un servo che è quotidianamente all’ascolto e impegnato nella testimonianza, è uno che va a scuola della parola, per poter dare una speranza agli stanchi che ormai nulla sperano. L’ebed, il servo è adesso limmud (discepolo o scolaro), questa definizione calza con il discepolato cristiano. La caratteristica del discepolo è che rende testimonianza anche dando la vita offrendo se stesso alle percosse per causa della testimonianza, non ha ritrato, non si è tirato indietro quando sono sorte delle difficoltà. Dobbiamo immaginare qui un tipo di persecuzione subita da chi compie questa funzione tra gli esiliati. Malgrado le apparenze e le sofferenze, il Servo di Dio sa che Dio è dalla sua parte. Nel giudizio sa che reggerà nei confronti degli avversari che saranno puniti per la loro colpa mentre sarà dichiarata la sua innocenza. Il contesto giudiziario di questi ultimi versi del canto terzo sembrano porre una domanda. Se Dio è con lui, perché apparentemente trionfano su di lui i suoi nemici? Ricordiamo la situazione dell’esilio in Babilonia. A questa domanda risponde il quarto canto.
52,13 a 53,12. In questo ultimo canto il tema è la sofferenza del Servo e il suo innalzamento o glorificazione. Curiosamente il canto inizia con l’annuncio dell’esaltazione dopo che tutti lo avranno fatto oggetto di obbrobrio e dileggio, questo sarà per tutti motivo di ammirazione o di stupore, non si comprende questo. Al capitolo 53 troviamo una descrizione delle sofferenze del Servo che molto somigliano nell’esposizione alle sofferenze del Cristo. La questione fondamentale riguarda il perché di quest’immane sofferenza: egli portò le nostre colpe, la sua sofferenza è stata causata dal nostro peccato. Vi è un contrasto costante tra un noi (soggetto collettivo che è tutto il popolo – tutta l’umanità) e Lui, il Servo (il rimanente di Israele o il messia inteso come personaggio singolo o collettivo dagli ebrei del tempo di Gesù). Notate per esempio 53,4: noi lo ritenemmo colpevole, ma egli portò le nostre colpe. Il vs. 5 è anche molto chiaro, noi l’abbiamo percosso ma le percosse sono per i nostri peccati. Il vs. 6 dice che noi ci eravamo smarriti seguendo le nostre vie oscure e peccaminose, ma Dio lo colpì per noi tutti, come castigo per i nostri errori. Il crescendo è impressionante fino al momento cruciale della morte, fu messo a morte per le nostre trasgressioni. Nell’interpretazione collettiva della figura non vi è dubbio, il popolo stesso ha peccato e ha pagato con l’esilio per il proprio peccato, ora che il peccato è stato espiato per le sofferenze subite è giunto il momento dell’esaltazione. Quest’interpretazione però si scontra con la dimensione universale che assume il testo, non si tratta soltanto di un processo storico di peccato e punizione per il peccato che conduce poi alla restaurazione. Vi è molto di più in gioco, la prospettiva stessa della salvezza intesa come dono della giustizia che il Servo ha acquistato per tutti, anche per i popoli lontani e le isole.
VVss. 10-12. Il racconto della salvezza inizia con indicare l’esaltazione del Servo sofferente dopo la sua morte e perché la sua morte è stata una morte non meritata, espiatoria, se egli è morto, in cosa consiste la riabilitazione se non nella risurrezione? Ci troviamo dunque nell’orizzonte della salvezza finale ottenuta dal Servo per mezzo delle sue sofferenze immani, il suo sacrificio che nel testo è chiamato asham parola che significa sacrificio per la colpa. La morte ha riparato o espiato il peccato, per cui i colpevoli ora possono attendere nella misericordia e nella giustizia divina, il Servo è causa della giustizia di questi molti evocati nel testo. I doni che ottiene non sono per sé, sono per tutti. Sono descritti nel modo dell’AT come vita lunga, felice e colma di beni, ma cappiamo che si tratta di una serie di immagini per descrivere la salvezza futura e la vita eterna, anche se descritte in questo modo figurativo. L’identificazione del Servo con Gesù da parte degli autori del NT non ci deve sorprendere. La sua vita e la sua sofferenza consumate in modo ordinario, che sono state la vita e la morte di un uomo di Nazareth, hanno avuto come risultato la salvezza e la giustizia, esse sono il dono divino ottenuto dalle sue sofferenze per noi. Questi elementi ci aiutano a capire meglio la vita e il ministero di Cristo alla luce degli eventi della settimana di Passione. La sua Passione è veramente il risultato del suo amore per noi. Egli ha affrontato coraggiosamente la morte mosso dal suo infinito amore per ciascuno e ciascuna di noi.