I canti del servo di Adonai in Isaia 1
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- Scritto da Martin Ibarra
Questi canti che sono quattro e che studieremo in due studi biblici successivi sono una parte importante del secondo Isaia (Isaia 40-55). Si identificano perché tutti i quattro sono introdotti da una formula “ecco (questo) è il mio servo” (cfr. Mc 1,11). Dio stesso indica una persona (singolare o collettiva) e la designa come il proprio servo (ebed), chiamato a compiere un’opera (vocazione). Il grande dibattito su questa figura è se si tratti di una persona singola o di un gruppo (per esempio il rimanente di Israele o tutta la nazione in senso lato). Il linguaggio è oscuro e non consente un commento lineare. Vedremo oggi i primi due canti in modo generale.
Primo Canto Isaia 42,1-4. Il Servo di Dio è identificato come una persona o gruppo che svolgerà una funzione determinata legata alla redenzione e alla salvezza. Questo personaggio avrà il sostegno divino per adempiere questa funzione salvifica, nel testo ricorre la parola “eletto”, è stato prescelto per adempiere questa funzione e sarà dotato da Dio (dalla ruaj divina) per adempiere la funzione per cui è stato scelto. Un’eco di questo canto lo troviamo in Mc 1,11 applicato a Gesù. L’importanza di questa figura del Servo la troviamo nell’uso che ne fa il NT appropriandosi di questa figura applicando la designazione a Gesù. Il compito consiste nel “portare il diritto (mishpat) alle nazioni”, “proclamare il diritto” finché la “giustizia sarà stabilita fra le nazioni”. Questa parola ebraica si usa per designare la giusta sentenza, o la sentenza secondo giustizia. Si dice anche “come non” adempierà questa vocazione: non grida né fa chiasso, non fa udire la sua voce nella piazza, non spezza…, non spegne… Invece lo farà in questo modo: proclamando il suo insegnamento per stabilire il diritto sulla terra (che le isole aspettano). In qualche modo la sua giustizia è attesa e dunque la sua azione troverà immediata risposta in tutti quelli fra le nazioni che riconosceranno in lui l’inviato di Dio per stabilire per sempre la giustizia come norma su tutta la terra, come fondamento dei rapporti tra le nazioni e tra i singoli.
Secondo Canto sel Servo 49,1-6. Qui parla il Servo scelto e parla alle “isole”, a voi “nazioni lontane”, e annuncia il messaggio che Dio glia ha dato perché lo rivolga a tutti loro. Il secondo canto inizia dunque con un’esortazione all’ascolto, non vi è un’imposizione violenta della parola, ma si affida alla forza pacifica e di giustizia inerente il messaggio stesso, esso si impone per se stesso, per la sua autorevolezza fondata nel diritto, nell’essere una parola divina. Il Servo è stato chiamato da Dio per adempiere questa funzione di fronte a tutte le nazioni. Al vs. 2 il Servo dice quello che ha ricevuto, una parola che come “spada” o “freccia” ha la forza di penetrare la ragione, di convincere, è appuntita e affilata nella giustizia per cui la sua forza risiede nella sua capacità di convincere e di persuadere in modo pacifico. L’autorità del servo proviene da questa chiamata divina, questo è il significato dell’espressione “il Signore mi tiene nella sua mano destra”. Il servo “ebed” di Dio, chi è? La storia di questa parola, proviene dall’Esodo, cioè dal momento in cui gli schiavi ebrei passano da essere schiavi di Faraone a “servitori” di Dio, lo schiavo è stato sottoposto a schiavitù alla forza, il servitore ha “scelto” il suo Signore che a sua volta lo ha scelto. Il rapporto di Israele con Dio non è quello del padrone e lo schiavo, ma è un rapporto di alleanza per cui Dio ha scelto Israele e di conseguenza Israele ha scelto Yahvé come suo Dio. Dalla storia di questo concetto teologico “il passaggio della schiavitù al servizio” si desume che il Servo non può essere altro che Israele, inteso come il soggetto dell’alleanza con Dio. Il rimaneggio del concetto nel NT obbliga dunque ad un’interpretazione individuale (il servo è Cristo), ma in un secondo momento il personaggio può essere identificato con l’intera chiesa come Corpo di Cristo.
Al vs 4 si vede il contrasto sempre attuale tra l’alta missione o vocazione ricevuta dal Servo e la sua inadeguatezza sotto ogni punto di vista. Il Servo riconosce il suo fallimento storico, l’inutilità della sua funzione. Questo fallimento ha nell’esilio babilonese la sua concretizzazione storica. Il contesto dell’esilio serve come cornice storica da cui partire per l’interpretazione dei canti e dell’intero secondo Isaia. Siamo dunque nell’ambito della confessione di un fallimento storico dell’intera nazione. Sarà possibile la restaurazione? Sarà possibile riprendere la propria funzione storica di essere luce e benedizione per tutte le nazioni? Ma proprio questo riconoscimento del proprio fallimento è la premessa per l’azione divina e dunque la rassicurazione che il risultato comunque sarà quello voluto da Dio, è implicita la chiamata alla restaurazione, il ritorno dall’esilio e la ripresa della propria vocazione storica. Non l’intervento umano, ma l’azione divina assicura il risultato che sarà la fine dell’esilio e il ritorno alla patria. Questa parola dice anche a noi che se tutto dipendesse dal valore dell’azione umana andremo sempre verso il fallimento, ma con il sostegno divino possiamo dire che l’opera che il Signore ci affida sarà compiuta. I nostri fallimenti non spezzano il nostro rapporto con Dio. Questa certezza ci aiuta ancora oggi a proseguire il nostro impegno certi del fatto che l’opera non è nostra, è del Signore, appartiene a lui e lui l’adempie in modi che a noi sfuggono. Il nuovo compito affidato al servo.
Dio stesso si impegna a fornire una nuova parola che ridarà al suo popolo di nuovo la vocazione spezzata, la scelta divina è riaffermata, la vocazione è di nuovo rivolta alla nazione e la nuova parola sarà efficace nel rendere Israele ancora degno della missione affidatagli dal Signore in relazione ora con tutti i popoli della terra, cioè non sarà più un rapporto esclusivo tra Dio e Israele a segnare la nuova fase dell’alleanza, ma il rapporto universale tra tutti i popoli fiondato sulla giustizia. Questa vocazione salvifica sarà portata a termine dunque in rapporto alla totalità delle nazioni.