IL TESTAMENTO DI GESU' 4
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- Scritto da Martin Ibarra
IO SONO LA VITE, VOI I TRALCI: Allegoria della vite e comandamento dell’amore.
Giovanni 15:1-17
Nel linguaggio dei profeti dell'AT Israele, la nazione e il popolo scelto da Dio, è chiamato “la vite o la vigna di Dio, o il vigneto di Dio” [cf. Isaia 5]. Nella parabola dei vignaioli cattivi, il Vangelo chiama la Chiesa di Cristo, in quanto nuovo Israele escatologico, “la vigna di Dio”. Nel quarto Vangelo la “vera vite” è lo stesso Gesù. I tralci sono i discepoli che rappresentano il nuovo Israele della fine dei tempi, il nuovo popolo del patto nuovo sigillato con la vita e con la morte di Cristo. Una prima osservazione non secondaria, mi è suggerita dall'espressione di Giovanni: “voi siete i tralci”. Notate l'utilizzo del plurale collettivo “voi”. Non si parla nel Vangelo di singoli tralci che singolarmente diventano parte del corpo di Cristo, del suo tronco di unica “vite vera”. Dunque, il voi di Giovanni fa riferimento alla totalità della Chiesa, a tutti quelli che compongono il nuovo Israele, a tutti i battezzati in Cristo nel nome della Trinità. Una seconda osservazione è suggerita dal contesto polemico con l'ebraismo di questo testo di Giovanni, ancor più evidente nella parabola a cui mi riferivo prima. Nel contesto polemico delle prime generazioni di cristiani la Chiesa era posta in "alternativa" esclusiva di fronte al popolo giudeo. Dopo le prime divisioni nella Chiesa, la tentazione è stata quella di usare la stessa polemica escludente riguardo le altre chiese cristiane. Questo spirito settario deve essere superato. Una terza osservazione deriva dal termine utilizzato: “frutto”. I discepoli sono i tralci che portano frutto, in cosa consiste il frutto? Nel capitolo 13, il racconto della lavanda dei piedi ha sostituito il racconto dell'istituzione della Cena del Signore; il capitolo 14 è una lunga conversazione sul Paraclito e sulla verità. La parola chiave nel contesto del brano che ci occupa è il “servizio” e la volontà e la disponibilità a “servire” come il Maestro ha servito i minimi fra gli esseri umani. Il “frutto” in singolare, che si aspetta di “voi”, la realtà collettiva innestata alla “vera vite”, è il servizio per amore imitando lo spirito di servizio di Cristo al mondo, questo è il buon frutto che Dio, il vignaiolo si attende di ognuno. La sensazione che riceviamo leggendo questa allegoria è quella di una realtà dinamica che si allarga sempre più. Intervengono diversi personaggi nello svolgersi le metafore successive: Dio che è il contadino, Cristo la vite che è venuta a servire il mondo, e “voi”, tutti quelli che siete stati chiamati per essere i tralci che portano il buon "frutto". Dio cura la vite, pota i tralci, toglie le foglie che sottraggono forza ai rami, che impediscono che il sole raggiunga i grappoli per portarli a maturazione, per renderli dolci e pronti per diventare buon vino; Cristo è la vite che dà la sua vita, che ci fonda su se stesso, che fa scorrere in noi la sua linfa perché i tralci vivano, respirino, abbiano il nutrimento. I tralci devono fare soltanto una cosa “devono rimanere in Cristo”, saldamente fondati al principio del servizio, radicati nello Spirito di Cristo che guida alla verità.
Il rimanere in Cristo per portare frutto diventa la “missione” del discepolo e della discepola che è insieme a tutti gli altri, tralcio della vite. La missione si configura in due modi: mantenere la comunione con il Cristo, la vera vite, e mantenere la comunione con gli altri tralci attraverso la comunione con Cristo. La linfa che scorre per le cellule di questa vite è la comunione. Inoltre, in questa nostra allegoria, la comunione significa sopratutto una cosa: AMARE che è l'equivalente del “servire”. L'amore vero e profondo verso ogni creatura umana e verso Dio è la linfa profonda che scorre in questa vite e che ci alimenta se rimaniamo saldamente innestati ad essa. Dalla sorgente dell'amore stesso, dalla benedetta Trinità, scorre questo fiume grandioso e inarrestabile, questo oceano di grazia che riempie e battezza il mondo creato, ognuna delle sue creature animali e vegetali. Dall'essenza stessa dell'agape divino scorre nella vera vite, la linfa vitale dell'amore e da essa passa ad ognuno di noi e ci dà la vita, ci salva da noi stessi, dalla nostra intolleranza e settarismo, dal nostro peccato di classificare e dividere l'umanità e di giudicarla. Sì, rimanere nel Cristo è essere in comunione attraverso di Lui con la divina Trinità, con ogni nostro fratello e sorella innestati al nuovo albero della vita piantato in mezzo a noi, con ogni altro essere umano, con ogni realtà creata, con ogni porzione materiale e spirituale dell'universo; ed essere in comunione universale attraverso il Cristo cosmico e universale, significa amare con l'amore divino la totalità del creato come amiamo noi stessi, ogni singola parte visibile che è un eco delle parole creatrici di Dio.
Ma, cosa significa RIMANERE IN CRISTO come EGLI RIMANE IN NOI?
Il frutto della vite diventa nell'allegoria di Giovanni la dimostrazione dell'unione del credente con il Dio uno e Trino. La fondazione storica di questa unione sta nella chiamata di Cristo che suscita la fede e produce la sequela: “Venite, seguitemi”. Questa chiamata è il frutto di una elezione: “Io ho scelto voi”. E questa unione esistenziale che l'allegoria evoca, viene resa visibile dal “frutto”. Esso trae la sua origine dal nostro rimanere in Cristo, e consiste nella comunione con Cristo che è amare e servire il mondo e gli uni gli altri come Lui ci ha amati: “così sapranno che siete i miei discepoli”. Il trasferimento che avviene consiste nel fatto che, attraverso il nostro rimanere in Cristo, la vita di Cristo scorra in noi come un fiume di acqua viva. Nel linguaggio paolino, lo stesso concetto viene espresso con la coppia di metafore: la nostra vita è nascosta in Cristo, e sono con - crocifisso con Cristo e non vivo più io ma Cristo vive in me. Giovanni afferma che se non rimaniamo in Cristo non c'è la possibilità di portare il frutto. Se si rompe la comunione e il trasferimento di vita da Lui a noi, allora la linfa vitale dell'agape non può scorrere in noi. Il frutto deve nascere, ma poi deve crescere e maturare, deve arrivare al punto giusto perché possa essere pigiato il grappolo che rende il vino nuovo. I sensi dell'allegoria possono adesso diventare più chiari:
‑ Rimanere in Cristo può significare per esempio l'ubbidienza del discepolo al comandamento doppio dell'amore, si rimane nell'amore nella misura in cui amiamo.
‑ Rimanere in Cristo può significare servire i minimi fra le creature di Gesù, servirle come Lui, dando per loro la vita, perché non c'è amore più grande (e dunque frutto più perfetto) di un amore che muore per amore altrui.
‑ Rimanere in Cristo può significare vivere la comunione che ci unisce gli uni gli altri, malgrado le differenze e le diversità, fare ogni sforzo perché la comunione esistente fra i cristiani di diverse confessioni diventi una comunione perfetta e visibile.
L'unione con Cristo è resa VISIBILE dall'amare gli uni gli altri. L'amore si erge a segno di identità collettivo di questo popolo designato con il “voi siete”. Il discorso sull'identità è diventato molto complesso in questo tempo in cui le diverse confessioni cristiane sono divise. L'enfasi va posto sulle differenze, su quelli elementi della teologia e delle prassi, dell'organizzazione e della spiritualità che riteniamo ci distinguano dagli altri. I segni di identità sarebbero oggi quelli elementi che sono specifici alle diverse confessioni e che ci pongono le une di fronte o in contrasto alle altre. Pensiamo che la nostra identità va ricercata, ricreata, cementificata e salvaguardata in tutto quello che ci è proprio e gli altri non possiedono. Nel dialogo ecumenico vis‑a‑vis attualmente in via di travagliato approfondimento, si cerca di stabilire quali siano i consensi generali e particolari, e le questioni specifiche che ci dividono, tutto quello che riteniamo siano i nostri segni di identità confessionale, sarebbe una specie di trasfondo o di sostanza aristotelica che fa di noi quello che siamo singolarizzandoci rispetto a ciò che invece ci accomuna e che deve essere preservato a qualunque costo perché sarebbe irrinunciabile. La nostra unione con Cristo non la descriviamo in termini di esistenza ma di configurazione dell'identità confessionale, l'equivalente all'ideologia nel discorso a carattere politico.
Questo è uno dei problemi più gravi per l'ecumenismo. E' urgente, imprescindibile affrontare il discorso dell'identità confessionale, tutto ciò che ci divide, e dell'identità esistenziale, tutto ciò che ci accomuna, e dunque, determinare alla fine quale identità e fino a quale stremo deve prevalere, se quella confessionale o quella esistenziale. Nel nostro testo non ci sono dubbi: è enfatizzato ciò che ci accomuna e produce comunione. Possiamo affermare che questa è una costante nel NT. Non che non ci sia una diversità profonda fra le comunità palestinesi, paoline, lucane, giovannee e petrine. Ma nel NT, che pone l'accento su un’ecclesiologia della koinonía, l'unione con Cristo è il punto nodale e di partenza per descrivere la realtà della Chiesa e l'identità dei discepoli. Per Giovanni il primo segno identitario è l'amore che si traduce in azioni concrete, visibili che consentono di identificare “voi” come tralci, come discepoli di colui che diede prova dell'amore più grande, perché diede la vita per tutti (e non solo per i suoi amici). Ogni nostra azione dovrà dunque portare una sorta di imprimatur, di marchio o stampo che aiuterà a identificare ciò che la provoca, l'amore che scorre come linfa vitale in noi perché siamo UNITI a Cristo. L'amore non è una virtù interiore o una specie di sentimento privato, di affetto o qualità dell'essere. Queste cose sono sottointese: l'amore è comunione, è servizio, è rimanere in Cristo, è in ultima analisi l'ubbidienza al comandamento dell'amare Dio e gli uni gli altri, e ogni essere umano e tutta la realtà creaturale. Per questo motivo l'amore è diventato il primo comandamento che dà alla chiesa vite e corpo il suo vero segno di identità, in quanto modo di esistenza “servizio” e di essere “nell’amore reciproco”
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