IL TESTAMENTO DI GESU': introduzione
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- Scritto da Martin Ibarra
Ci sono un Vangelo, tre lettere e uno scritto l’Apocalisse che la tradizione antica cristiana (da Papia in avanti c. 125) considera scritti da Giovanni, il figlio di Zebedeo, discepolo amato da Gesù e apostolo, una delle colonne della chiesa di Gerusalemme secondo la testimonianza dello stesso Paolo in Galati. Ma questi scritti si presentano in forma anonima, tranne l’Apocalisse in cui si usa il nome di Giovanni l’anziano (si usa la parola presbyter), il che rende incerta l’attribuzione tradizionale. L’autore di questi libri qualifica se stesso come il discepolo che Gesù amava (Gv 21,24 che rende testimonianza), ma nel Vangelo questo apostolo non si identifica con Giovanni l’Apostolo figlio di Zebedeo. Appartiene ad un gruppo di comunità (le comunità giovannee) site nella zona della Siria con sede ad Efeso, la chiesa fondata da Paolo nel suo terzo viaggio missionario (c. 56). Basta dare uno sguardo anche superficiale a questo vangelo per capire che è molto diverso vangeli sinottici. Non ci sono le parabole, Gesù non insegna attraverso logia, ma attraverso lunghi discorsi dati alla folla o a singoli personaggi o ai discepoli come nel caso della sezione che noi studieremo cap. 14-16, non si raccontano esorcismi e molti dei miracoli resi celebri nei sinottici sono ignorati da Giovanni, mentre qui si raccontano dei miracoli che i sinottici non conoscono. Il vocabolario è diverso, i concetti come Logos, segno, unione con il Padre, rivelazione e testimonianza (martyria), ecc. non si trovano nei sinottici. Mentre Giovanni e le tre lettere presentano tutto sommato un buon greco, il libro dell’Apocalisse no, è molto diverso anche lo stile, è pieno di semitismi per cui si attribuisce ad un altro autore.
Il concetto fondamentale del vangelo di Giovanni, di tutta la sua teologia, è senza dubbio la rivelazione, notate che abbiamo detto concetto e non parola, dunque è inutile cercare in Giovanni le solite parole per rivelazione (verbo apokaliptein, sostantivo apocalipsis) e i sinonimi come phaneroun, gnoritsein o anaggellein. Il concetto di rivelazione è ovunque nel vangelo soprattutto in tre contesti diversi che vedremo spero con cura. Anzitutto nei passi che raccontano i sette segni messianici compiuti da Gesù affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché credendo, abbiate vita nel suo nome (20:31). L’affermazione esplicita che Gesù compì molti altri segni (semeia) ma che questi sette siano stati scritti affinché voi crediate nella messianità e figliolanza divina di Gesù implica la rivelazione di Gesù che consiste soprattutto nel fatto che egli è il messia e il figlio di Dio, dunque la rivelazione di Gesù consiste nella sua auto rivelazione come inviato dal Padre per rivelare la sua persona attraverso la sua opera redentrice. Il secondo contesto è in riferimento ai discorsi di Gesù alla folla, ai discepoli e le conversazioni con i singoli (contesti discorsivi e dialogici che abbiamo studiato in passato), soprattutto quelli in cui Gesù usa l’espressione “Io sono”, di nuovo ci troviamo in contesti evidenti di rivelazione della sua persona come luce, acqua viva, pane, buon pastore, vita, verità, risurrezione. Notate la ricorrenza del sette: sette segni miracolosi, sette ricorrenze dell’Io sono. Il terzo contesto sono le discussioni con gli avversari (i capi degli ebrei). Lo schema dell’evangelo è semplice e ricorrente: Gesù compie un segno, pronuncia un discorso (o tiene una conversazione con un singolo Nicodemo, la samaritana), e il segno e il discorso provocano una discussione con gli avversari, notate come i tre contesti di rivelazione si sovrappongono per costruire il nodo narrativo e il passaggio da una concezione generica di Gesù come il profeta, il messia e la progressione della fede dei discepoli fino alla comprensione finale di Gesù come il figlio di Dio, del suo rapporto con Dio unico ed esclusivo di cui ci fa dono. Ci sono altri contesti di rivelazione collegati all’uso che l’evangelista fa di alcuni termini come Logos, doxa, aletheia collegati a Gesù, alle sue parole, azioni che sono gli strumenti o i mezzi attraverso i quali Gesù rivela il Padre e il suo rapporto con lui. Questo insieme di parole e azioni di Gesù costituiscono una testimonianza perfetta (martyrein) e completa del Padre che lo ha inviato e la cui opera Gesù compie nella terra. La risposta appropriata a questa rivelazione che è Gesù stesso è il credere (pisteuein), chi crede in Gesù riceve la vita (tsoe) che è la parola chiave significante salvezza (altri sinonimi sono pace, conoscenza) a cui si giunge per mezzo della fede che equivale in Giovanni a “conoscere” o vedere con gli occhi della fede (hidein). Rivelatore e rivelazione coincidono in Giovanni (paragonate la centralità dell’arrivo del Regno come tema dei sinottici e la giustificazione per grazia mediante la fede in Paolo). Il vangelo è stato scritto per rendere testimonianza ai due termini della rivelazione di Gesù: il primo è la sua origine (pothen) divina e il secondo e il suo destino (pou) la morte e la risurrezione per la salvezza di chiunque crederà in lui. Il titolo figlio di Dio raccoglie entrambi i termini della rivelazione, attraverso la fede nel Figlio il discepolo diventa figlio per adozione.
L’elemento fondamentale del rapporto tra Dio e l’uomo richiede dalla parte di Dio l’operare per la salvezza e la redenzione e per provvedere al bisogno dell’essere umano. Ma, cosa richiede dalla parte dell’uomo? La risposta che troviamo in Giovanni è che dalla parte dell’essere umano Dio richiede la fede. Attenzione ora, in Giovanni non troveremo mai la parola pistis, il sostantivo per fede in greco, ma troviamo costantemente il verbo pisteuo, credere, al centro del concetto di credere vi è per forza un elemento dinamico e non statico. Vediamo più da vicino il concetto di credere in Gesù in un testo chiave (Gv 7, 37-39 Chi crede in me dal suo seno sgorgheranno fiumi d’acqua viva), la fede sarebbe qui l’inizio della vita spirituale. L’autore della epistola agli Ebrei afferma che senza la fede non c’è favore da parte di Dio. La fede non deve essere confusa con l’atto di credere a questa o all’altra dottrina, ma credere è in Giovanni, per non dire in tutta la Bibbia, fiducia in Dio e abbandono alla sua volontà, non un atto o azione umana, se lo fosse la salvezza dipenderebbe da un atto umano, sarebbe salvezza per opere umane. La fede è fiducia, abbandono, la fede si risolve in un credere in Gesù: Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno. La fede in Gesù sarebbe “secondo le Scritture”, cioè poggia sul fondamento di quello che vi è scritto nella parola di Dio. Questa era la fede di Gesù, questa è la fede della chiesa, una fede “secondo le Scritture”. Credere in Gesù forma parte di una storia scritta da Dio stesso nelle opere e nelle parole di Gesù, perché chi ha visto me (quello che dico e quello che faccio), ha visto il Padre. Questo esclude altri oggetti della fede, altri contenuti, è sempre e soltanto fede in Gesù, questa concentrazione cristologica è la fede per Giovanni, non un atto umano, ma un abbandono fiducioso in Gesù, nella sua opera di salvezza così come la scrittura del Vangelo stesso la racconta. Nel testamento di Gesù troveremo questi elementi essenziali della teologia di Giovanni e delle sue comunità: Gesù è il Figlio di Dio, inviato dal Padre a rivelare il rapporto di figliolanza, chi crederà in Gesù sarà salvato e diventerà un figlio o figlia di Dio per adozione, Gesù torna al Padre ma non ci lascerà soli, invierà il suo Spirito che è l’altro come lui che ci insegnerà tutto quello che Gesù ha insegnato e ci guiderà a tutta la verità che Cristo è e sarà per sempre.