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Qohelet 6

Qohelet 8,10 a 9,10 La sorte del giusto e dell'ingiusto.

8,10-15 Ci sono dei giusti che soffrono ingiustamente e degli ingiusti che prosperano malgrado la loro ingiustizia. Questo sconfessa l'antica legge della retribuzione in vita del peccato e della giustizia. Questo è una realtà esperimentata dall'autore ma anche da colui che legge/ ascolta l'insegnamento di Qohelet. Ci sono esempi noti a tutti di persone ingiuste o inique che sono morti onorati e coperti di beni e di ricchezze (8,10), l'ebraico di questa parte è difficile (da capire e da accettare direi), viene da pensare che abbiamo capito o interpretato male il testo. Non vi è dubbio che ci troviamo di fronte ad un doppio paradosso (insopportabile secondo le tradizioni antiche), vi sono gli ingiusti che sono sepolti con onore, cordoglio e nei luoghi santi, mentre ci sono dei giusti sepolti e caduti nella dimenticanza collettiva anche del luogo dove furono seppelliti. Significa qui hebel vanità? Cioè, che una cosa e l'altra siano vanità o meglio che "non abbiano senso"? Non vi è dubbio che il peso maggiore del contrasto è l'onore ricevuto alla morte dal malvagio e della dimenticanza dei giusti. Non dice la tradizione che il bene e il male saranno ricordati fino alla terza o quarta generazioni? Invece qui subito il giusto è dimenticato e l'ingiusto onorato e ricordato oltre il proprio merito.

Succede spesso un altro "male" (o meglio un'altra ferita aperta che sanguina) – notate che non si tratta di un'eccezione alla regola che appunto accade "spesso, di frequente", e nessuno potrà smentire questo. La malvagità non trova "subito" la sua giusta punizione (8,11-12). In questo caso lo scandalo è che né Dio né gli uomini puniscono subito colui che ha commesso il male. Come mai può succedere una cosa del genere che va contro tutto quello che afferma p.e. Deuteronomio? L'ultima parte del vs. 12 dovrebbe tradursi in questo modo: "perché il malvagio pratica cento volte la malvagità e prolunga i suoi giorni" (si potrebbe paragonare questo testo a Gb 21,7). Secondo la dottrina dei saggi (8,13) chi commette il male deve essere castigato dagli uomini e da Dio, mentre chi fa il bene e ciò che è giusto deve a sua volta ricevere il premio da parte di Dio e degli uomini (notate che in questo secondo caso l'ordine è invertito). Questi prospereranno e "moltiplicheranno i loro giorni", mentre i primi vivranno vite misere la cui durata sarà oltremodo accorciata e limitata. Ma, questa è la constatazione sorprendente e che "non ha senso" sarebbe proprio che molti uomini non ricevono in vita quello che hanno meritato per le loro azioni positive o negative (ricevono il contrario di quello che afferma la dottrina tradizionale dei saggi). La conclusione dinanzi a questa apparente assurdità senza senso, il meglio sia mangiare, bere e godere le cose semplici della vita insieme a quelli che si ama senza aspettarci di vedere sempre compiersi la giustizia nei confronti dei comportamenti umani durante la durata della vita umana.

8,16-17. Qohelet dunque trae qui una conclusione importante, semplice, nessuno può capire appieno quello che succede nella vita e i perché di tutte le cose che fanno gli uomini e Dio. Il nostro Saggio ha studiato entrambe le cose, il procedere degli uomini e di Dio nei suoi rapporti con la realtà creata da Lui. Se vi è qualche saggio che pretenda di sapere i perché si auto inganna e chi segue il suo insegnamento insegue una chimera, corre dietro al vento. Nessuno potrà mai capire perché a soffrire sia il giusto e a godere l'empio, e così che Dio vuole? Se non lo vuole, però, perché succede esattamente così e non una volta o due ma continuamente ed è a tutti evidente? Per gli antichi "tutto quello che avveniva era non solo voluto ma pure attuato da Dio, questo era conseguenza del principio unitario nella divinità, non ci può essere nessun'altra realtà che possa affiancare Dio come agente nella storia in contrasto con Dio (questa possibilità era per loro inconcepibile). La conclusione era una sola: in modo misterioso è Dio stesso a operare in questo modo che sembra negare quello che la sua stessa parola dice.

9,1-10. Abbiamo raggiunto un punto molto delicato nella riflessione di Qohelet che lo colloca sull'orlo dell'eterodossia, dobbiamo tenere presente che sia Qohelet che il Cantico sono entrati con molte difficoltà nel canone. L'affermazione che "i giusti e i sapienti e le loro azioni" sono nelle mani di Dio non la possiamo capire nel senso che tutto li andrà bene, no, qui significa che quello che ci accade non dipende dalle nostre azioni ma del "disegno imperscrutabile divino". Noi non possiamo capirlo, ma come non possiamo capire praticamente nulla: "né l'amore nell'odio" per esempio, che sono elementi determinanti della vita umana, ma i loro meccanismi sfuggono al nostro controllo o comprensione. Tantomeno possiamo capire quello che è dinanzi a noi, cioè il futuro, quello che dovrà accadere e che non conosciamo.

Il Predicatore usa ora una serie di cinque contrasti per indicare che nulla di quello che l'essere umano possa fare potrà cambiare "la sorte o destino", quello che capita a tutti i viventi e che soltanto al vs. 3 ci indica: "la morte o il morire", questa è la sorte che tocca a tutti. I morti per Qohelet non sanno nulla, sono al di là della ricompensa o della punizione, ci troviamo in uno stadio della riflessione teologica sull'aldilà ancora in embrione e non completamente sviluppato. La condizione del vivente, qualunque sia la vita che faccia, dura o difficile che sia, è sempre migliore da quella dei morti. Qui troviamo un'espressione celebre e che si usa molto anche in italiano "finché si è vivi c'è speranza", vale a dire la speranza di un cambiamento o miglioramento della condizione, mentre la morte tutto livella e finisce ogni possibilità di sperare in qualche cosa di meglio. Bittahon più che speranza significa "fiducia", talvolta certezza, ma attenzione, nell'intervento divino anche quando sembra tutto sospeso. Un celebre utilizzo di questa parola è applicata a Ezechia e a tutta Gerusalemme che quando furono assediati dal re assiro Sennacherib, "avevano fiducia" in un intervento divino che avrebbe messo in fuga gli assiri. E così fu in effetto, Is 36,4 "che fiducia è questa?" è il commento satirico dell'ufficiale del re assiro. Era la fiducia nell'intervento divino che avrebbe tolto la minaccia della morte e dato la vita a Gerusalemme. Cimuoviamo qui in questa galassia di significato della parola bittahon.

Qui sembra respirarsi un paradosso, alcuni interpretano a questo punto il discorso come "pessimismo radicale", ma questo significa non aver capito Qohelet. Lui ha iniziato questo discorso dicendo che a muovere i fili, o meglio a indirizzare le sorti è il "volere" misterioso divino, a noi potrà sembrarci ingiusto, senza senso apparente, ma perché ci manca la conoscenza del perché delle cose. Visto dalla prospettiva divina, invece, da colui che conosce il perché di tutto e conduce tutto verso un destino che soltanto lui conosce e dispone, da colui dinanzi al quale "tutto posto in evidenza", tutto cambia. Cosa deve fare il giusto che è anche il saggio? Abbandonarsi al designo divino, avere speranza, essere sicuro nelle mani di Dio, qualunque cosa accada al giusto esso è nelle mani divine e non sarà confuso dopo la sua morte, gli uomini potranno dimenticarlo, Dio non dimentica i giusti e riserva loro la sua giustizia. Riguardo il domani e l'oggi sulla terra invece, quello che dobbiamo fare è semplicemente accontentarci delle cose semplici che possiamo godere insieme alle persone che amiamo. Una nota finale: siamo invitati a gioire anche "del lavoro", esso non è una condanna, è un'opportunità, una vocazione divina rivolta a noi perché possiamo realizzare l'esistenza. In alcune cose Qohelet è veramente moderno e sorprendente.