Qohelet 5
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- Scritto da Martin Ibarra
Qohelet 7,23-29 e 8,1-9 IL FALLIMENTO DELLA RICERCA DELLA SAPIENZA.
Per ben due volte Qohelet confessa di aver fallito la sua ricerca della sapienza: vs. 23 "l'ho cercata ma è rimasta lontano da me", e il 28 "quello che cerco (o che ho cercato) e non trovo (o non ho trovato)". Qohelet cercava la Sapienza, cioè, capire lo heshbon "la ragione di ogni cosa" (il perché delle molteplici realtà mondane). Non è riuscito a venire a capo, forse era troppo ambiziosa la ricerca, ma questa era la promessa che troviamo costantemente nel libro dei Prov. (cf 8,1ss.). Originariamente questa parola hessbon significava inventario e passò a designare la conoscenza della totalità di ciò che può essere conosciuto dall'essere umano. Qohelet si accorge di non aver colto la totalità, ma una serie di frammenti del reali: introduce nel suo libro queste scoperte con la parola "ho trovato" (sempre dopo una lunga fatica). Dalla totalità al frammento, questo è l'abbassamento della pretesa, il cammino dalla sapienza tradizionale alla "postmodernità" intrapreso dal nostro saggio.
7,23-29. S'impone ora una riflessione sul perché di questo fallimento constatato a metà circa dell'opera scritta. La sapienza è anzitutto un metodo e ha come oggetto "capire" i rapporti delle realtà esistenti con il Creatore e con noi che siamo i soggetti della ricerca. Il metodo di Qohelet era originale: metteva in questione i risultati e i metodi dei sapienti tradizionali e introduceva una curiosa variante, non indagava soltanto l'ambito tradizionale della sapienza, cioè la torah (come parola divina e comandamento), il timore di Elohim e le virtù positive del giusto, ma ampliava il campo a sua volta alla stoltezza (follia, male,zone oscure del creato e della creature o ambito del hebel vanità, spreco, fumo, nebbia vs.25), alle attività umane con le quali s'affatica Adam alla ricerca di senso e di felicità (di tutte le attività compiute sotto il sole). Il fallimento deriva da una consapevolezza: cosa ho trovato? Qohelet confessa che "non ha trovato quello che cercava", la sapienza che consiste nel comprendere il perché (la ragione di essere, i nessi) la totalità dell'esistenza e degli esistenti (esattamente quello che cercavano i filosofi greci). Ma qualcosa Qohelet "ha trovato", noi stiamo di fatto riflettendo sulle cose che egli "ha trovato" (ricordate l'Eureka di Archimede siracusano da Heurisko trovare). Vediamo cosa ha trovato e ci rivela in questo passaggio:
vvss. 26-28: "la donna è più amara della morte è come una macchina di assedio", e prosegue "il suo cuore (mente) è una rete e le sue mani legami", per concludere "non si trova una donna retta tra mille". Più che un pensiero qui siamo all'invettiva. Ma cerchiamo quello che la formulazione misogina, che appartiene all'età patriarcale dell'autore, non cancella. Diciamo anzitutto che non si tratta della "donna" come genere né le singole donne presse una ad una. Si tratta della "donna stranea" di Proverbi (in Pr 32 però si trovava la donna virtuosa che Qohelet non ha trovato tra le "mille mogli leggendarie di Salomone"). Un problema de non poco conto è l'ordine invertito dei vvss. 27-28 e il fatto che al vs. 27 Qohelet è al femminile, la desinenza ebraica del verbo distingue tra maschile e femminile "amra' haqohelet" non significa ha detto (lui), ma ha detto lei, questa forma ha suscitato mille commentari contradditori. Viu leggo uno simpatico tratto dal volume che Erri de Luca ha dedicato al nostro libro (p. 25 n. 141). Conclude paragonando l'uno che ha trovato giusto tra i mille uomini, ma nessuna donna.
vs 28-29. La seconda conclusione dei "trovati" di Qohelet è espresso con un gioco di parole, abbiamo visto che Qohelet cercava l'hesbon (il perché di tutte le cose), ora dice che Dio ha creato l'essere umano "semplice" yasar (o giusto o retto), ma l'essere umano si è smarrito alla ricerca di "mille complicazioni" hissebonot (sotterfugi, invenzioni vane). Resta l'umile costatazione del fallimento "non trovo quello che cerco" e dunque l'accontentarsi delle piccole gioie portate dalle fatiche quotidiane per ottenere il necessario per la vita insieme con le persone che amiamo.
8,1-9. Qui inizia una nuova sezione che tratta dei rapporti con il governo e i limiti al potere degli uomini (e del saggio). "Chi è come il saggio?" Questa frase contiene il riconoscimento non di una superiorità del saggio sulla folla degli ignoranti, ma della solitudine del sapiente il cui volto è illuminato dal suo conoscere le "parole" (peshar che è contaminazione aramaica).
Nei vvss. 2-5 si tratta di come "rapportarsi" con il Re e con chi è in autorità le cui decisioni non possono essere contrastate. Questo consiglia "la prudenza" che è l'arte di relazionarsi con il potere che è imprevedibile nel proprio comportamento (l'autorità per definizione è "arbitrio o arbitrarietà" un esempio è l'imposta IMU su un bene, la casa, che tutti abbiamo già pagato, perché non tassare invece le rendite finanziarie o i capitali?). Non dimentichiamo che al tempo di Qohelet non esisteva la libertà di espressione ma un assoluto dispotismo poiché si pensava all'origine divina di ogni potere, perché l'ubbidienza al re deriva dal giuramento fatto della nazione al momento dell'intronizzazione. Il consiglio deriva dalla costatazione del saggio di quanto sia pericoloso l'arbitrio dell'autorità iniqua che usa il potere in modo indegno, ma irresistibile perché il singolo non ha nessun potere né possibilità di opporsi all'arbitrio del potere, "chi si attiene al comandamento non subirà disgrazie". Il saggio sa che ci sarà un "momento" anche per il "giudizio" mispat di quelli che ora reggono le sorti del governo, perciò attende con pazienza l'arrivo del "Giudice" che giudicherà sull'operato di ogni essere umano secondo le leggi con cui ha creato e disposto l'ordine delle cose mondane.
Nei vvss. 6-9, torniamo all'idea del "grande male" o della ferita aperta e sanguinante, in questo caso riferita alla "morte" su cui nessuno ha governo alcuno, non potendo decidere l'uomo quale sarà il giorno della sua morte. L'uomo non può superare certi limiti, questa impotenza ha la sua massima espressione nel "momento del morire", nella battaglia della vita alla fine tutti siamo sconfitti e rimangono le nostre spoglie mortali abbandonate sul terreno. Nemmeno il "male" salva chi lo pratica (dunque è meglio praticare sempre il bene), dunque non è meglio fare il male. Questo potrebbe essere letto anche come un avvertimento al monarca o al potente ingiusto, meglio fare del bene perché con tutto il tuo potere non puoi controllare il respiro (e non il vento come traduce la nostra Riveduta simpaticamente) cioè la vita, la morte, perciò è meglio, visto che dobbiamo comparire dinanzi al giudizio divino, comportarsi in modo giusto verso il popolo e nel rispetto della legge di Dio.