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Qohelet 2

QOHELET 6,1- 12 Insoddisfazione del desiderio di Adam:

Raccolta di massime tese a mostrare l'ossessione che annienta il godimento (alla gioia c.5 si oppone il desiderio insaziabile dell'essere umano che lo lascia perennemente insoddisfatto), il bene supremo è irraggiungibile all'Adam in questa effimera durata dell'esistenza, dove trovarlo dunque se non nella dimensione eterna dell'Elohim? Ma ne farà Dio dono all'uomo di questo bene imperituro eterno?

6,1-6: Qh descrive ora un male "frequente" che grava sugli esseri umani e che consiste nell'impossibilità di godere l'onore o la posizione elevata raggiunta da un uomo, che gli consentirebbe di godere "tutto quello che in teoria si può desiderare", il senso della frase in ebraico è che non gli manca nulla che potrebbe desiderare, questa è la chiave di significato dell'intera sezione. Il verbo desiderare itahué implica una forte fisicità in ebraico, il "male" consiste nell'aver ricevuto come dono da Dio tutto quello che un Adam (uomo) "può", ma il verbo è nell'originale nel tempo futuro "potrà desiderare" - in italiano dobbiamo utilizzare il condizionale "potrebbe desiderare"- (polarità continua tra Adam (uomo) ed Elohim (Dio)). A questo Adam Dio ha fatto dono della totalità dei beni desiderabili, ma non ha dato a questo uomo "il dono di goderne". Questo testo è "misterioso" e stimolante, perché inoltre a goderne (a consumare o spendere i beni cumulati) di tutti questi frutti desiderati non sarà "uno straniero" ma un 'ysh nchr cioè "un altro uomo", semplicemente, questo è il male grave che Qohelet vede frequentemente, questa è "ferita cattiva" che fa male ed è "spreco" un'espressione che fa riferimento allo "spreco di seme" e anticipa dunque l'idea del nèfel, dell'aborto che seguirà dopo.

Nel vs. 3 si illustra questa ferita cattiva o grave male e si dà l'esempio di un Adam che" ha generato cento figli e vissuto lunghi anni", se non si sazia dei suoi beni e muore senza sepoltura la sua sorte è peggiore di quella dell'aborto (la parola nèfel significa in realtà "cadere" si intende nello Sheol nel luogo oscuro senza nemmeno aver visto la luce (Salmo 58,8 "come nèfel di donna senza aver visto la luce"), la condizione dell'aborto è quello di uno spreco di vitalità che non raggiunge lo scopo, questa è la condizione di chi ha accumulato ogni bene desiderabile ma gli è impedito di consumarli, di goderli, è uno spreco di fatica perché non raggiunge l'obiettivo del yitron o retribuzione dello sforzo compiuto. L'idea è sempre la stessa, una vita non realizzata, un rincorrere il vento a "perdifiato". Il vs. 4 prosegue l'immagine dell'aborto come spreco "nasce invano" per morire (cioè per "andare nelle tenebre"), qui le tenebre sono l'immagine della morte e il suo nome è coperto da ombre perché non sarà mai pronunciato, passa dal buio del ventre al buio della tomba. Il vs. 5 conclude il simile della condizione migliore dell'aborto rispetto colui che ha ogni bene ma non può goderli, il suo desiderio rimane insoddisfatto, il vantaggio dell'aborto riguardo il ricco del vs. 3 è che non è mai stato "tàhat hashèmesh" – sotto il sole -, non ha condiviso la "condizione affaticata di quelli che vivono sotto il sole", la sua penosa condizione è migliore di chi non riesce ad appagare il desiderio insaziabile poiché Dio non glia ha concesso questo dono. L'ironia del vs 6 chiude la prima parte del capitolo: anche se vivesse duemila anni in quella condizione di incapacità di godere i beni abbondanti che ha ricevuto come dono di Dio non ne avrebbe nessun vantaggio.

6,7-9 la bocca, la sapienza e la vista: qui abbiamo tre sentenze (massime mashal) molto interessanti. Qohelet ci dice che tutta la fatica dell'essere umano è indirizzata a saziare "la vista e la bocca", a utrire il desiderio e riempire la bocca (noi diremmo lo stomaco), ma allo stesso tempo la tragedia umana consiste nel fatto che la "vista è insaziabile", non si stanca mai di "vedere", e la bocca è una specie di abisso che non potrà mai "essere riempito", da questo deduce che la condizione del saggio non è migliore (soltanto a questo riguardo) di quella dello stolto, perché entrambi hanno una vista insaziabile e una bocca incolmabile. Tutta la fatica di Adam è per riempire la bocca ma il suo fiato – la NR traduce appetito - (nèfesh) non è mai saziato. Questo proverbio serve a Qohelet per mostrare che non vi è vantaggio per il saggio se non riesce a "goderne" i beni saziando gli appetiti, o al povero –l'afflitto- che sa comportarsi bene tra i viventi (quelli che hanno il fiato, alito di vita nèfesh haià), ha imparato la sapienza della retta condotta ma si trova nella condizione di non avere i mezzi per goderne la vita perché appunto è povero e dunque gli mancano gli strumenti per soddisfare i suoi bisogni. Infine questi proverbi si concludono con l'enigma di "è meglio una vista lunga di (hàlac nèfesh let. correre a perdifiato) lasciare vagare i propri desideri, si intende senza poter soddisfarli, è meglio godere di pochi piaceri nella vita di avere un'infinità di desideri che non possono essere saziati. Su questi tre detti cade inesorabile la sentenza "è hebel e camminare in compagnia del vento", non serve a nulla, non è utile, non vale la pena lo sforzo. Sarebbe meglio "stare a guardare", in questo caso il saggio Qohelet dice che è preferibile rimanere passivi a lanciarsi in una corsa sfrenata verso l'accumulo quando non si ha la possibilità di consumare per la propria gioia i beni desiderati. Il significato è profondo, non dobbiamo dedicare la nostra vita a quello che è già in partenza irraggiungibile: la soddisfazione dell'appetito o desiderio insaziabile se non attraverso uno specifico dono di Dio.

6,10-12 il capitolo si conclude con una serie di detti che sembrano la chiusura della sezione iniziata con il capitolo 4, si raggiunge in questo modo la parte centrale del libro. Il vs. 10 afferma qualcosa che è già stato detto prima in modo diverso: "ciò che esiste è già stato chiamato per nome da tempo" (sarebbe meglio dire "è già esistito" o "è già stato fatto in passato"), essere chiamato per nome significa nel contesto linguistico ebraico "venire all'esistenza", perché Dio ha creato il mondo attraverso la parola, la realtà esiste perché ha ricevuto un Nome da parte di Dio. Sono famosi i primi versi dell'Epica Babilonese della creazione: "Quando nell'alto i cieli non erano stati ancora nominati, e la terra sotto non aveva ancora ricevuto il suo nome", con il significato evidente che avere un nome o riceverlo significa venire all'esistenza. Ancora, purtroppo, è insoddisfacente il prosieguo della NR "ed è noto che cosa l'uomo (l'Adam) è", che non può contendere con chi è più forte o potente (takkif è parola aramaica che significa duro-potente ed è riferita al cacicco del villaggio, l'uomo più potente del paese) di lui, cioè il suo Creatore. Contendere a parole (vs.11) con colui che è più potente di te nel villaggio è sprecare le parole, parlare al vento, contendere con hebel, una perdita di fiato, uno spreco di seme, che vantaggio ti verrà? Contenderai a parole con il tuo Creatore? In un certo senso qui sembra apparire la parte finale di Giobbe come un'ombra.

Il vs. 12 merita un commento più dettagliato. Abbiamo già visto quanto sia importante rimaneggiare il linguaggio di Qohelet, non possiamo dipendere da nessuna traduzione. Il massimo specialista (riconosciuto) del linguaggio del nostro autore è stato Robert Gordis, autore dell'opera Qohelet, the man and his world, apparsa nel 1951. Ora il vs. 12 della NR è identico alla traduzione di Gordis in inglese (non è possibile che sia un caso). Analizziamo il testo:

--"chi può sapere ciò che è buono per l'Adam nella sua vita" ... la vita breve dell'Adam impedisce di raggiungere la vera conoscenza di quello che sarebbe bene per lui.

--"durante tutti i giorni della sua vita vana" ... l'esistenza dell'uomo è "effimera", questo è il significato qui di hebel, troppo corta per raggiungere la vera conoscenza di ciò che è convenevole per noi.

--"che Adam passa come un'ombra?" ... l'idea qui è la durata della vita come un giorno in cui a seconda dell'ora cambia l'ombra e la sua collocazione, significa che l vita dell'uomo è tanto corta che la passiamo a considerare semplicemente a considerare o notare il cambiamento dell'ombra secondo lo spostamento de sole da questo all'altro angolo della terra.

--"chi sa dire all'Adam quel che sarà dopo di lui sotto il sole?" ... nessuno può vedere oltre la propria esistenza effimera passata a valutare ombre (l'idea della caverna di Platone potrebbe essere dietro a questa immagine insieme con l'impossibilità di Gilgamesh di mangiare il frutto della giovinezza). Il significato è che l'uomo non può raggiungere il bene assoluto durante il corto spazio della sua vita travagliata ed effimera, allora il bene supremo è da trovarsi come dono di Dio nella dimensione divina (nel più in là?) dell'eternità.