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Romani 9:6-13

Non vi è dubbio che il testo chiave di questa sezione sia il vs.11 che ora traduciamo letteralmente, prima di avventurarci nell’esegesi. Il vs. arranca con un parallelismo: mépo gar gennethenton (poiché prima ancora che fossero nati – si riferisce ai gemelli di Rebecca Esau e Giacobbe) medè praxaton ti agathon e phaulon (e avvessero fatto qualcosa buona o malvagia), hina he kat’eklogen prothesis tou Theou mene (affinché rimanesse stabile il proposito dell’elezione di Dio). Abbiamo premesso la traduzione letterale perché nelle traduzioni consultate troviamo troppa parafrasi, a volte nel tentativo di chiarire concetti teologici molto complessi, si riversano però sui testi i “risultati” di secoli di discussioni soprattutto su due concetti chiave: quello del proposito divino (il suo progetto di salvezza) e del suo strumento “operativo” secondo Agostino, Tommaso e poi Lutero e Calvino che seguono le linee tracciate dai primi due, elezione o predestinazione (o predeterminazione). Non possiamo nemmeno pensare ora di inseguire la storia teologica di questi due concetti, rimarremo nel tono generale del testo che è quello di presentare due esempi biblici che dimostrano: a. che la progenie di Abramo non dipende dalla carne, dalla nascita, ma dalla promessa divina; b. che l’azione divina nella storia è costante, così fu nel passato e così è oggi, vi è un vero Israele che è figlio della promessa divina, e vi è un falso Israele carnale fatto dalla volontà umana. Questo argomento è strumentale alla discussione apologetica sul tema che occupa l’intera sezione: il NO d’Israele a Cristo e l’inclusione della chiesa composta da ebrei e da gentili nell’alleanza attraverso la promessa divina.

L’argomento usato contro Paolo da parte dei suoi rivali ebrei è questo: il proposito salvifico divino parte con l’elezione d’Israele, il rifiuto da parte della maggioranza d’Israele di Gesù è prova che la chiesa da lui fondata è “fuori” dall’ambito delle promesse divine, altrimenti Dio avrebbe “fallito” il suo proposito di salvezza attraverso l’elezione appunto d’Israele. Questo argomento che conduceva alla doppia aporia che abbiamo visto all’inizio è consistente e difficile da risolvere. L’Apostolo usa anzitutto un argomento di carattere biblico e “spirituale”, profondamente spirituale, perché ci riporta all’atto stesso dell’elezione, al suo fondamento indecifrabile nel cuore divino, per quale motivo ha scelto Dio in due occasioni il “minore” (Isacco e Giacobbe), prima ancora che essi nascessero e che avessero mostrato con la loro condotta (essi o quelli ai quali sono stati scelti e preferiti) di avere un qualunque merito di giustizia che li qualificassi? Questa è la domanda che soggiace alla dottrina biblica dell’elezione, Paolo dice in sostanza, è avvenuto ora nella nostra storia con Gesù quello che è avvenuto per due volte all’inizio della storia del popolo ebraico. Notate soprattutto questo, primo che l’apostolo pensa di vivere la “fine imminente del tempo”, pensa di vivere il momento cruciale del passaggio dell’eone presente e l’inaugurazione dell’eone futuro, secondo, che l’elezione avvenuta ora è di nuovo quella del figlio minore rispetto il figlio maggiore, quello che aveva la pienezza del diritto del primogenito. Ma attenzione a non sbagliare un passaggio cruciale: per Paolo l’oggetto dell’elezione non è la chiesa, come non è oggetto della riprovazione l’intero Israele, no, no e mille volte no, questo è stato l’errore di fondo dell’impostazione della dottrina della predestinazione da Agostino in poi. L’oggetto dell’elezione, il figlio minore non è la chiesa ma Cristo, è lui la promessa che adempie tutte le promesse, e poi attraverso l’elezione del Figlio, partecipano all’elezione tutti quelli che credono in Lui, ebrei o gentili allo stesso modo, senza differenze né limiti.

Come dicevamo la settimana scorsa negli accampamenti dei primi due patriarchi avvenne una doppia “elezione” da parte di Dio, questi esempi servono a tracciare il “modello” che si ripete nella storia dei rapporti di alleanza tra Dio e l’umanità e il suo popolo. Avvenne nei due casi una “scelta” che differiva dalla scelta dovuta alla normale legislazione patriarcale, in tutti e due i casi il primogenito è stato scavalcato dalla benedizione (beraka) che implicava l’alleanza eterna con Dio: il possesso della terra, il rapporto speciale con Dio e la vocazione universale come popolo numeroso che sarà benedizione per tutta la terra. Non vi è una motivazione per questa “scelta” divina che crea una divisione tra eletto e riprovato, non dipende da qualcosa che essi abbiano fatto perché è stata anticipata da un proposito divino eterno che li precede. Certamente, questo schema può essere contestato e un Dio che si comporta in questo modo può essere considerato arbitrario. La divisione provocata dalla “scelta” intesa come decisione divina è tra quello “che io ho amato egapesa” e “quello che io ho odiato emisesa”, appartiene alla decisione fondante di Dio e non può essere messa in discussione da noi, sarebbe un dato primigenio, accompagna la decisione divina di creare il mondo, non si può discutere se sia avvenuta “prima o dopo” la decisione di creare, in Dio non vi è un prima e un dopo, ma un eterno presente, tutto è presente a Dio sempre, perciò la “scelta” divina, che Dio abbia scelto e che questa scelta poi si riversi nei momenti successivi della storia umana, in momenti concreti come quello della vita e della morte di Gesù di Nazareth è il normale procedere nel tempo umano quelle che sono state le decisioni divine eterne. Questa doppia divisione tra un figlio della promessa e un figlio della carne indica che l’essere figlio di Dio ed erede delle promesse non è un fatto “razziale” consacrato dalla nascita come pensano gli ebrei del tempo. Nel caso dei figli di Rebecca è ancora più chiaro, perché Esau e Giacobbe sono figli dello stesso padre e della stessa madre. Questa è la dimostrazione della tesi di Paolo da un punto di vista biblico e spirituale: non tutti i figli d’Israele secondo la carne sono dei veri figli d’Israele, e viceversa, anche coloro che non sono secondo la carne dei figli dì Israele possono diventare dei veri israeliti. Il punto che tratterà immediate dopo è il come si verifichi questo.

Un ultimo pensiero amare e odiare al vs. 13 significano semplicemente “scelta” e “rifiuto”, non hanno connotazione morali, sono il risultato della scelta che è discriminante (ma non discriminatoria), separa nel senso che stabilisce una differenza, ma il secondo potrà partecipare alla benedizione, come è successo nei due casi di Ismaele e di Esau, non è esclusione. Forse è stato questo il malinteso più micidiale riguardo l’interpretazione della dottrina della predestinazione, poiché in Cristo l’elezione non è soltanto a vita ma anche a morte, dunque l’elezione di Cristo è stata anche riprovazione, egli ha portato i nostri peccati e ha subito il giudizio e la condanna di Dio perché adesso nessuno sia condannato ma tutti possano essere salvati. L’elezione e la riprovazione di Gesù sulla croce sgombrano il terreno dell’accusa di arbitrarietà: ora gli esseri umani siamo oggetto di elezione o di riprovazione, non più e non oltre la nostra stessa decisione di scegliere o di rifiutare Cristo, Paolo afferma che la svolta avviene nella scelta del Figlio, di Gesù Cristo, è lui colui che è stato scelto e riprovato, e noi lo siamo per la decisione che prendiamo riguardo a Lui, possiamo essere ebrei o gentili, non cambia la nostra situazione di fronte a Cristo, tutti dobbiamo prendere una decisione in cui è coinvolta l’intera nostra vita che non finisce con la morte, che ha una dimensione eterna e anche questa è una parte della nostra decisione e della decisione divina che sceglie in Cristo, in colui che è stato scelto..