Romani 9:1-5
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- Scritto da Martin Ibarra
1 Dico la verità in Cristo, non mento - poiché la mia coscienza me lo conferma per mezzo dello Spirito Santo - 2 ho una grande tristezza e una sofferenza continua nel mio cuore; 3 perché io stesso vorrei essere anatema, separato da Cristo, per amore dei miei fratelli, miei parenti secondo la carne, 4 cioè gli Israeliti, ai quali appartengono l'adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro e le promesse; 5 ai quali appartengono i padri e dai quali proviene, secondo la carne, il Cristo, che è sopra tutte le cose Dio benedetto in eterno. Amen!
COMMENTO:
Il problema teologico suscitato dal rifiuto degli ebrei, popolo eletto ed erede delle promesse, di accettare Cristo come Messia promesso è motivo di riflessione e di un accorato appello alla conversione. Questa sezione dell’Epistola ha questo come tema dominante.
Vvs. 1-2: L’Apostolo esprime una grande tristezza (lype megale) e un’afflizione incessante (adialeiptos odyne), espressioni molto forti che segnano la sua vita, che provocano angoscia e tristezza, sentimenti contrastanti con la gioia della salvezza sua personale e di tutti quelli che ha condotto a Cristo. Notate questo contrasto di sentimenti: da una parte l’Apostolo è pieno della gioia della salvezza e dei frutti del suo lavoro missionario insieme con i suoi collaboratori, dall’altra parte è presso da incessante dolore. Prima di entrare nel motivo di questa profonda sofferenza e che analizzeremo subito, notiamo come sono intensificati questi sentimenti da due espressioni che l’Apostolo usa al vs.1 e che introducono l’intera materia della sezione. “Verità (aletheian) dico in Cristo, non mentisco (pseudomai”), questa prima affermazione in positivo indica quanto sia vero e certo tutto quello che l’Apostolo dirà, in negativo Paolo afferma di non mentire, perché? Perché egli è accusato di “voler distruggere” Israele in quanto popolo o nazione, mentre egli è convinto di realizzare il vero Israele portando gli ebrei a Cristo. Quest’accusa doveva essere particolarmente dolorosa per lui, significa “Cristo mi è testimone”, sarebbe una sorta di giuramento cristiano o meglio di affermare che ciò che mi è più prezioso mi è testimone della mia sincerità, se non è così allora sono bugiardo e merito il rifiuto di Cristo dinanzi al tribunale di Dio. Non solo, vi è un altro rafforzativo subito dopo: “la mia coscienza e lo Spirito santo rendono testimonianza di questo”, lo Spirito e la coscienza (syneidéseos) sono due testimoni interiori che ratificano la verità delle asserzioni che seguiranno, secondo l’antica legge ogni questione è decisa dalla testimonianza concorde di almeno due testimoni (non basta uno); l’apostolo ha già parlato di una buona o cattiva coscienza, in questo caso la coscienza umana illuminata dallo Spirito agisce secondo verità e senza menzogna o doppiezza alcuna, altrimenti lo Spirito l’abbandonerebbe. Egli segue dunque nel suo pensare e sentire quanto dice l’impulso dello Spirito e il consiglio di una buona coscienza che sa discernere e capisce la distinzione tra il vero e il falso. Notate dunque la solennità e importanza di queste riflessioni di Paolo sul rifiuto di Israele. Forse l’Apostolo sta dicendo a tutti i cristiani di condividere questi sentimenti? Il rifiuto degli ebrei ha provocato invece il razzismo e la persecuzione, l’odio dei cristiani contro l’intero popolo di Israele. Invece dobbiamo setire la stessa tristezza e angoscia, sincere e senza doppiezza. Questo dovrebbe essere secondo me l’atteggiamento giusto dei cristiani nei confronti degli ebrei.
Vvss. 3-5: Qui troviamo le ragioni dei sentimenti di tristezza e angoscia che riempiono il cuore di Paolo che prega euchomen Dio, per essere egli stesso tagliato da Cristo anathema einai … apò tou Christou a favore (hyper) dei “fratelli” miei e miei “parenti” secondo la carne. Ecco la ragione profonda della tristezza immensa svelata, preferirebbe essere condannato lui se questo potesse portare tutti i suoi fratelli ebrei alla salvezza. Questa affermazione è molto forte, ha già chiarito che dice il vero e non mente, non sta esagerando né facendo un teatrino, non gioca con le parole in modo retorico ma ha aperto dinanzi a noi tutti la sua coscienza e il suo cuore per mostrare cosa contengono: un’infinita tristezza. Nel vs. 4 troviamo ancora lo sviluppo di questo ragionamento che è cordiale, che mostra il cuore, e non è un artificio retorico o un esercizio mentale razionale, anzi ha molto di irrazionale. Prendiamo ora la parola Israelitai per capirne l’uso che fa Paolo, si tratta degli eredi storici delle promesse dell’alleanza, i figli legittimi di Abramo che sono gli “eredi” che hanno il diritto ad usufruire delle promesse divine di salvezza, chiariamo anche che ci sono dei veri e dei falsi israeliti, come vi erano due figli nell’accampamento di Abramo, il primo figlio della schiava Agar era il figlio secondo la carne e non era il “vero” erede legittimo; mentre il secondo figlio, Isacco, lui sì era il legittimo erede, il vero figlio della promessa nato da Sara e dunque per intervento diretto di Dio. Tutti e due sono “figli di Abramo”, ma soltanto uno è figlio di Sara, dell’anziana incapace di partorire perché è ormai passato il suo tempo ed è invecchiata. L’elenco degli immensi privilegi che aspettano ai “veri israeliti” è impressionante, sarebbero i doni che aspetta loro in quanto nazione scelta da Dio. Vedremo poi che questo è il termine chiave: tra i due figli nell’accampamento decide l’elezione divina, uno solo è scelto e l’altro deve abbandonare l’accampamento, non vi è spazio per tutti e due. Riprenderemo in seguito questa affermazione. Ma vediamo subito l’elenco dei privilegi:
- L’adozione a figli,
- la gloria,
- le alleanze,
- la legislazione,
- il culto,
- le promesse
- i padri
- il Cristo che è venuto da essi secondo la carne.
Questo è il punto di svolta: i “veri” eredi hanno rifiutato il DONO PIU’ IMPORTANTE, notate ora l’enfasi posto nella descrizione dell’ultimo privilegio che è il più importante di tutti: che è sopra tutti (on epì panton) Theos eulogetos (dio benedetto) per i secoli” Amen. Queste due affermazioni riferite a Cristo: che è Dio benedetto sopra ogni cosa significa naturalmente che “tutto gli altri privilegi” sono inferiori e condizionati da quello che è al di sopra di tutto, in questa totalità sono inclusi tutti gli altri privilegi. Cristo è superiore ad ogni altra cosa, possedere Cristo è più importante di tutte le altre cose (Paolo le aveva già considerate spazzatura in Filippesi), senza Cristo tutti gli altri privilegi non servono a nulla e non giovano a nulla, perché appartengono alla “carne”, mentre Cristo appartiene sì alla carne perché viene da Israele secondo la carne, ma ora occorre riconoscerlo e accettarlo mediante lo spirito per poter avere accesso a tutte le cose che il Signore Gesù dischiude per noi: la salvezza per grazia mediante la fede in primo luogo, e poi la gioia della salvezza, la comunione intima con Dio, la sicurezza di essere ascoltati in preghiera quando ci ricolgiamo a Dio nel suo Nome, il dono dello Spirito che dimora in noi, presso la nostra stessa coscienza, dentro del nostro spirito. Questa è la vera ragione della tristezza di Paolo, il possesso di tutti questi privilegi ha accecato gli israeliti e non hanno saputo riconoscere “il più grande e assoluto” dei doni che Dio aveva fatto loro: far nascere dalla loro nazione il Salvatore di tutti, il Cristo benedetto, Figlio di Dio e Signore della salvezza eterna. Ora loro possiedono ancora tutti quei privilegi, senza dubbio, Dio non ritira la sua parola e tutte le promesse che ha fatto non tornano vuote a Lui, ma si sono privati del “maggiore dei doni”, e questo provoca una tristezza infinita. Come quando gli indiani davano ai conquistatori il loro oro in cambio dei vetri colorati.