Questo sito web utilizza cookie per fornirti la migliore esperienza di navigazione.

Libro dei Giudici 3

GIUDICI 10,6 a 12,7 IL CICLO DI JEPHTE.

A lungo mi son chiesto se incentrare la riflessione su Jephte o sulla figlia. Ho deciso di dividere lo studio in tre momenti in cui vedremo in successione i tre personaggi principali che sono Dio, Jephte e la figlia (che per noi rimane nell’anonimato, nel sistema patriarcale non conta il nome dell’individuo ma quello del clan che in questo caso è Galaad nella tribù di Manasse, nella Cisgiordania), e l’interazione con i personaggi secondari delle loro trame: tutto Israele nel caso di Dio – gli anziani di Galaad, gli Ammoniti e gli Eframiti, nel caso di Jephte – Jephte stesso nel caso della figlia e delle sue compagne.

10,6-17 Israele cade di nuovo nell’idolatria: Non sarebbe notizia da prima pagina, abbiamo già visto la costante deriva idolatra di Israele. Tra Gedeone e Jephte ci sono altri tre giudici, Abimelek, figlio bastardo di Gedeone, Tola e Jair, le cui storie non ci interessano questa volta. La differenza rispetto le altre volte è nella minuziosa enumerazione delle divinità straniere. Non manca nessuna all’appello, ci sono per tutti i gusti e tendenze. Per la prima volta si menzionano gli dei filistei che premono Israele da Sud, mentre ora sono gli ammoniti a invadere il territorio di Manasse dall’altra parte del Giordano (il territorio che fu degli Amorriti) e minacciano di penetrare nel centro del territorio centrale della Palestina, entrando da Nord-est. L’altro aspetto importante è il rifiuto di Dio di soccorrere Israele: “Non vi soccorrerò questa volta. Chiedete aiuto agli dei stranieri che servite” (vs. 13-14). Dobbiamo immaginare che Dio ha parlato attraverso qualche profeta anonimo e che abbia presso una decisione ferma: “Questa volta, no”. La decisione divina è stata presa, Israele ha reagito dopo diciotto anni all’invasione degli ammoniti da Nord e dei filistei dal Sud. Notate ora due cose nel racconto: la prima è che comunque Israele ha reagito alle parole di Dio “togliendo gli dei pagani dal paese”, l’atto di rimuovere gli idoli è ora collettivo (e non di un solo clan gli Abiezzeriti, come nel caso di Gedeone), la conversione e rimozione degli idoli avviene in “tutto il paese”, poiché tutti sono coinvolti nella doppia minaccia, e non una sola tribù o clan; la seconda è che ad un certo punto Dio comincia ad irritarsi “per la condizione del suo popolo” (vs. 16), gli ammoniti che erano strumento della punizione ora eccedono il proprio compito e diventano “il problema da rimuovere”, detto in altri termini, Dio “si è pentito di aver deciso di “non intervenire questa volta”, ha cambiato opinione dunque due volte” e decide malgrado tutto di intervenire ancora “questa volta” e di salvare il suo popolo dalla mano degli ammoniti. Il vs 17 ci lascia dunque nell’attesa di conoscere chi sarà “l’eletto di Dio per salvare il suo popolo dalla minaccia incombente”.

11,1-33 e 12,1-7 La guerra contro gli ammoniti e contro Efraim: La scelta di Dio cadde su un fuggiasco, sul figlio illegittimo di una prostituta, cacciato via dai suoi fratelli, esiliato nel paese di Tob dove faceva il brigante con altri disperati come (e quanto) lui. Questo ci sorprende per alcune analogie con Abimelek, ma tutto sommato, Jephte appare come un personaggio positivo, l’unico neo nella sua storia riguarda il suo voto scellerato a Dio. Le due campagne militari, contro l’esercito nemico invasore, e la guerra fratricida con Efraim, sono precedute da quello che possiamo chiamare delle “trattative diplomatiche”, gli uni e gli altri “devono giustificare la guerra”, non basta oramai il diritto del più forte, occorre avere delle ragioni per muovere guerra contro un altro. Siamo dunque di fronte ad una svolta epocale nei rapporti internazionali, che non si fondano soltanto sull’uso della forza, ma occorre trovare alleati e giustificazioni per poter mobilitare le nazioni o i popoli, i clan e le tribù. La conclusione evidente è che la guerra mossa dagli ammoniti è ingiusta e destinata a fallimento.

Gli anziani di Galaad cercano Jephte per guidarli in battaglia, e lui accettò ponendo delle condizioni tutto sommato giuste: “dovete scegliermi come vostro capo e condottiero”. La logica di questo racconto è che l’elezione del giudice (e poi del Re) è doppia: da una parte il primo a scegliere è Dio, poi deve scegliere il popolo (ratifica) ponendo Dio come “testimone auricolare”, che ci ascolta e che dunque punirà quelli che non rimarranno fedeli al patto contratto tra il giudice e Dio, e tra il giudice e il popolo. L’esercizio del potere da parte di un uomo deve avere una sanzione sacra. Effettivamente, Jephte poi “porta” tutta la questione che lo riguardava al santuario di Mizpa, vicino a casa sua. Non entrerò nelle minuzie della campagna contro gli ammoniti che non ci interessano. Focalizziamo ora questo “voto di consacrazione a Dio” della prima persona che uscirà da casa sua, se tornerà vincitor” (vs.30), e al vs. 29 questo testo importante “lo spirito (ruaj) del Signore venne su Jephte”. Cosa nasconde questo voto? Talvolta l’incertezza, poiché la campagna mossa da Jephte per reclutare un esercito sufficiente ad affrontare il nemico sembra essere stata fallimentare, sono poche le forze che hanno risposto al suo appello. Qui non è successo come a Gedeone che come segni del favore divino si è limitato a chiedere di bagnare o lasciare asciutta la pelle di un agnello, qui si tratta di qualcosa di molto grave, se il testo non ha un valore metaforico (è comunque una delle possibilità che abbia sacrificato soltanto la verginità dell’unica figlia votandola al celibato nel tempio di Mizpa), l’olocausto completo come vittima propiziatoria della “prima” persona a corrergli incontro della sua casa per celebrare la vittoria. I sacrifici umani erano seriamente vietati (Lev. 18,21; 20,2-5; Deut. 12,31; 18,10). Come si spiega questo voto? Certamente si tratta di un testo molto difficile (un testo chiamato da alcuni esegeti “dell’orrore”).

Sulla sconfitta successiva di Efraim, che si rifiutò di rispondere all’appello per combattere gli ammoniti e ora che Jephte è riuscito a trionfare con un piccolo esercito, pensa di poterlo sconfiggere facilmente perché indebolito, diciamo soltanto che si tratta di nuovo di una “guerra ingiusta” da parte di Efraim. Perciò dovranno affrontare le conseguenze feroci della loro sconfitta: saranno scannati in quarantaduemila. Sono individuati perché incapaci di pronunciare bene una parola. Poesia allo stato puro anche se terribile.

11,34-39 il sacrificio in olocausto della figlia di Jephte: Notate anzitutto che Dio non aveva chiesto niente a Jephte per il suo aiuto contro gli Ammoniti. Il meno che si possa dire di questo voto è che sia stato “molto avventato”, come quello fatto da Saul, prima di affrontare la battaglia contro i filistei. Ma in quel caso i soldati impediscono l’uccisione di Jonathan, ma qui nessuno ha fermato il sacrificio. Come non ricordare il sacrificio di Ifigenia da parte di Agamennone, suo padre? Dio ha promesso la vittoria a Israele attraverso l’uomo scelto da Dio e dal popolo, fa tutto Jephte da solo, si inguaia con le sue stesse parole. Il voto era “io lo offrirò in sacrificio come olocausto completo (olah)” (vs. 30). La ragazza è la prima della casa che gli corre incontro danzando e suonando il tamburello per celebrare la vittoria del padre sui suoi nemici, come Miriam. Ci sono molte affinità con la storia del sacrificio di Isacco, ma la conclusione è troppo diversa, d’altronde Abramo era il patriarca, Jephte è figlio di una prostituta e l’olocausto non è stato sospeso. “Ahimè figlia mia, mi pieghi fino a terra”, in qualunque caso e comunque interpretiamo il testo se la ragazza è stata sacrificata come olocausto o come sacrificio propiziatorio e soltanto la sua verginità è stata dedicata a Dio nel tempio, il risultato è che si tratta dell’unica figlia, e pertanto Jephte rimane senza eredi, senza discendenza. La ragazza accetta il suo destino: “Padre, se tu hai aperto bocca verso il Signore, fa’ di me quello che ti è uscito di bocca”. La ragazza chiede un’unica cosa, di piangere con le sue compagne la sua verginità sulle montagne di Mizpa, attorno al santuario. La storia della coraggiosa e sventurata ragazza si chiude con l’affermazione che ogni anno, nei boschi dei monti attorno a Mizpa, per quattro giorni, le ragazze di Israele piangono per la figlia di Jephte, libere di vagare sui monti senza il controllo maschile. Un prezzo che paga il patriarcato per continuare ad opprimere le donne? La chiave di lettura del testo potrebbe proprio essere questa, la giustificazione di una prassi che rallentava la pressione patriarcale sulle donne e dava loro libertà almeno per alcuni giorni l’anno.