Libro dei Giudici 2
- Dettagli
- Categoria principale: Testi
- Scritto da Martin Ibarra
Debora Madre di Israele, profetessa e giudice e Barak: La liberazione di Israele Gdc 4-5.
Di una cosa possiamo essere certi, questi due capitoli raccolgono notizie di eventi molto arcaici e rispecchiano, curiosamente, una posizione delle donne molto diversa all’inizio della storia della confederazione dei hbr (kbr), molti storici sono del parere che nei tempi arcaici dell’umanità (paleolitico-neolitico) vi era addirittura un’organizzazione matriarcale della società. Di certo abbiamo in questo testo diverse affermazioni che sono rimaste vive nella memoria di Israele malgrado la trasformazione successiva della società ebraica in senso rigidamente patriarcale: Debora è chiamata “Madre di Israele”, profetessa, giudice, inoltre ci sono delle affermazioni sul suo ruolo dirigente, “i figli di Israele salivano da lei per le controversie giudiziarie”, lei “sedeva sotto la palma di Debora, tra Rama e Bethel” nella “montagna di Efraim”, fu lei a “chiamare Barak” (chiamare è il verbo qal da dove viene qhl assemblea del popolo chiamato “alle armi”), cioè lei ha convocato la qehal (come facevano Mosè o Giosuè).
Per quale motivo? Se leggiamo in parallelo la narrazione c.4 e il canto di Debora c.5 noteremo delle differenze, ma non ce ne occuperemo ora di queste. Osservate piuttosto la riproposta dello schema teologico che interpreta tutta questa fase storica (appartenente a D): Israele si è dimenticato di Dio, ha peccato contro il suo Dio è questo è ora oppresso da un re cananeo (Jabin di Hasor) il cui generale Sisera possiede 900 carri di ferro, i soldati nemici hanno occupato la pianura e i figli di Israele sconfitti sono fuggiti nei monti dove da vent’anni conducono vite precarie e minacciate. La narrazione e il canto ci offrono la conclusione dello schema teologico, Israele ha riconosciuto il proprio peccato guidati questa volta da una donna (lo stato di prostrazione era tale che è stata una donna a “risvegliare” la coscienza e la fede di Israele) che funge da liberatrice, da salvatrice insieme a Barak chiamato a condurre in battaglia l’esercito. Questa tradizione ha la sua origine nelle tribù del Nord, Debora apparteneva alla tribù di Isakar, mentre Barak viene dal territorio di Zabulon e Nephtalì (in questo racconto sembrano fuse due tradizioni, quella della grande sconfitta dei re cananei del Nord portata a termine da Giosuè nelle acque di Merom – Gs 11 -, e la battaglia di Debora e Barak contro Sisera presso il torrente Qishon). Israele ha riconosciuto il proprio peccato, allora ha urlato il suo dolore per l’oppressione e il Signore ha “destato o risvegliato” Debora (5,12), perché tutti i condottieri e capi di Israele “dormivano”. Dio parla alla sua profetessa e il messaggio è chiaro ed evidente: E’ arrivato il tempo del riscatto, uscite in combattimento perché il Signore scenderà dai monti con voi per combattere contro Sisera e il suo esercito, sarà Dio a dare la vittoria, sarà lui il vero protagonista, mentre Debora sarà il suo strumento in quanto portatrice della parola.
La battaglia che si svolse nella pianura di Jizreel, occupa appena qualche frase nel racconto, si racconta sommariamente la strategia dei due eserciti e l’esitazione di Barak che chiede a Debora di accompagnarlo in battaglia. Questo costerà caro a Barak, dice Debora, la gloria della battaglia andrà ad una donna, Jael, moglie di Heber il kenita (discendente di Caino). Questa Jael è un’altra delle sorprese di questo testo, costei “ha la sua tenda” (4,17), non abita nella tenda del “marito”. Anche qui si parla della fusione dei due racconti, ma non abbiamo lo spazio per trattare queste cose. La sorpresa dell’attacco di Barak lascia Sisera impantanato con i suoi carri incapace di manovrare e la battaglia si trasforma in realtà in una strage di cananiti. Lo stesso Sisera per salvarsi deve fuggire a piedi, trova rifugio presso “la tenda” di Jael che fa finta di accoglierlo come ospite. La scena tra Sisera e Jael si svolge come una sorta di accoglienza della “madre”, Jael comportandosi da “madre” fittizia inganna Sisera (la vera madre di Sisera attende in vano il suo arrivo chiusa nella sua casa), lui chiede acqua ma lei gli offre “latte dall’otre” che secondo molti potrebbe essere un eufemismo per “offrire a Sisera il proprio seno”, la “madre” allatta e fa dormire il furioso nemico trasformato dal colpo inflitto da Dio al suo esercito in un bambino timoroso che “cerca” la madre. Letta in questo modo la storia mette in parallelo le due “madri”, Debora è madre di Israele in quanto liberatrice, Jael la kenita come il suo antenato uccide colui che fa finta di curare e ospitare (ma il suo gesto non sarà condannato come un peccato contro il sacro dovere dell’ospitalità, sarà invece lodato come colpo eroico della donna soldato improvvisata di Dio). Sisera muore da vile e vigliacco nella tenda trasformatasi in tela di ragno dove è caduto in trappola.
Il canto di Debora celebra la vittoria di Dio, le potenti opere divine in favore del suo popolo oppresso, possiamo mettere in parallelo questo canto con il canto di Myriam, il giorno della sconfitta di Faraone e del passaggio del Mare Rosso. Notate che questo “evento” si colloca dunque nella serie delle opere portentose operate da Dio per la salvezza e la redenzione del suo popolo, formando dunque una catena di eventi dove Egli si è rivelato all’umanità come salvatore ma anche come giudice che giudica il peccato, la perversità e il tradimento del patto. La sequenza teologica del libro dei Gdc ci racconta ogni volta di un percorso di peccato – punizione(presenza del male) – pentimento – salvezza, che dobbiamo considerare come un insieme teologico che spiega la storia, l’alternarsi in essa di sconfitte e vittorie, di miserie e di prosperità, in ultima analisi quello che si vuole armonizzare è da una parte l’onnipotenza e bontà di Dio, e dall’altra l’esistenza nella storia umana nel mondo del male, della sofferenza, dell’oppressione che colpisce non soltanto chi è malvagio ma anche il popolo di Dio. Lo schema possiamo considerarlo una confessione di fede monoteista che cerca di dare ragione dell’esistenza di un principio malvagio che però non può che ascrivere “al peccato di Israele”, in questa fase della sua storia quando non vi è ancora la definizione di una personificazione del male stesso in un personaggio concreto. Il male subito è sempre dovuto al peccato commesso, non vi sono per il momento alternative teologiche allo schema del Deuteronomio. Questo emerge con forza nella storia dei Giudici. Il rischio di questo schema per noi è doppio (e ci risulta ormai evidente): da una parte identificare l’origine dei nostri “guai” storici o esistenziali nella nostra condotta “peccaminosa”, non mancano oggi i profeti di sventura che dicono che l’origine della crisi è il peccato della nazione; dall’altra il rischio è cadere nella trappola di credere in un Dio soccorritore dell’ultimo minuto, una specie di garante della nostra incolumità esistenziale, che deve intervenire ed interverrà senza dubbio per risolvere all’ultimo momento con un colpo di bacchetta magica tutti i nostri problemi e guai esistenziali o biografici.