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GLI ATTI RELIGIOSI COME RISPOSTA ALLA RIVELAZIONE DIVINA

GLI ATTI RELIGIOSI COME RISPOSTA ALLA RIVELAZIONE DIVINA: Una riflessione sulla dimensione dialogica del Sacro. Martin Ibarra.

 

Gli ATTI religiosi sono la realizzazione dell’atteggiamento o sentimento, impulso religioso di risposta umana, singola o collettiva, spontanea od organizzata ritualmente, alla manifestazione del sacro, del mistero, del divino. Gli atti si inquadrano all’interno di una cornice strutturata di senso, anzitutto in un TEMPO determinato che costituisce il momento propizio (la festa, il tempo forte, il tempo sacro con una frequenza costante settimanale, mensile o annuale), se diamo un esempio, il sabbath ebraico, non si corrisponde esattamente con il giorno settimanale del sabato, per gli ebrei il sabbath è un giorno di riposo (l’architettura del tempo della creazione Divina in sei giorni) che coincide ogni settimana con il settimo giorno, ogni mese con il giorno della luna piena e annualmente in occasione delle grandi feste, poi ogni settimana di anni (7x7 e dunque ogni 50 anni) segna il grande sabbath del Giubileo per la terra e per gli uomini. Oltre al tempo, gli atti religiosi si inquadrano in uno SPAZIO, in dei luoghi identificati come sacri, dove gli atti possono essere compiuti (il luogo sacro per eccellenza degli ebrei fu il tempio di Gerusalemme, per i musulmani è la KABAA nella Mecca. Gli atti possono essere molteplici, possiamo individuare almeno tre che sono universalmente praticati da tutte le religione conosciute, che sono costanti nella storia delle religioni. Questi tre atti che analizzeremo ora sono la preghiera, la meditazione e il sacrificio.

LA PEGHIERA è l’atto religioso centrale di tutte le religioni secondo gli studiosi del fenomeno della religione. La preghiera consiste nel mettersi in presenza del mistero e stabilire una certa comunicazione (entrare a contatto) con esso. Il modo in cui si concretizza la preghiera rende palese il concetto di Dio della religione stessa, la qualità effettiva della sua motivazione religiosa, i componenti emotivi, sentimentali e razionali dell’atteggiamento religioso, le forme etiche praticate dalla comunità pregante, il tipo di organizzazione sociale che il gruppo religioso si darà. Ci sono diversi tipi di preghiera. Sembra che la più elementare sia la preghiera di richiesta, vi è una preghiera meditativa (silenziosa o articolata in parole spontanee o formule fisse), preghiera di lode e di adorazione, di sottomissione, di abbandono, di confessione della fede o del peccato, vi è una forma mistica di preghiera contemplativa, la preghiera di ringraziamento e di affidamento.

Vediamo un testo importante Genesi 4,26, raccogliamo questa espressione “in quel tempo si cominciò a invocare (radicale pll tr), il nome del Signore”. Notate queste due radicali ebraiche (pll e tr), sono i verbi più utilizzati nell’AT per designare la preghiera (che è anzitutto Invocare Dio perché egli si accorga di noi, ci riconosca, usi misericordia verso di noi). La prima radice (pll), significava l’atto di incidere, per esempio con gli strumenti di scrittura nelle tavolette di argilla o nelle pergamene (pelle di animale dove si scriveva compiendo due operazioni, la prima si incideva il carattere, la seconda si riempiva l’incisione con dell’inchiostro, la stessa cosa che si compie quando si effettua un tatuaggio sulla pelle). La seconda radice (tr) si riferisce allo squartamento rituale delle vittime dei sacrifici, alle mutilazioni rituali dei partecipanti ai culti – la circoncisione è una mutilazione e come tale una forma primitiva di preghiera: la mutilazione o il tatuaggio compiono una funzione religiosa: fanno che Dio mi riconosca come un “suo devoto”. Il patto del Sinai è sigillato con dei sacrifici rituali dei circoncisi e si chiude con questa formula: “Adonai è il vostro Dio e Voi siete il suo popolo”, dunque Egli vi riconoscerà quando compirete un atto cultuale o chiederete qualcosa a Lui.

La prima definizione di preghiera è questa: comunicare con Dio. Noi comunichiamo in due modi: attraverso il corpo (linguaggio corporale, gestuale, mimica), e attraverso le parole e le costruzioni simboliche del linguaggio parlato (sistema di segni convenzionali, suoni che hanno un significato codificato e stabilito nelle lingue parlate). Comunicare con Dio però era pericoloso nei tempi antichi. Sulla preghiera notiamo anzitutto un’evoluzione progressiva in quanto comunicazione che va da questo generico invocare, che significa piuttosto “incidere sulla pelle” e dunque quasi certamente il tatuaggio di un simbolo che rappresenta Dio, alla preghiera del silenzio – senza parole, nel chiuso della propria camera, che può essere nel chiuso dell’interiorità umana, la preghiera spirituale di Gesù o di Romani 8, senza parole o con suoni articolati inintelligibili a colui che prega -. Per comunicare occorre conoscere e praticare una serie di regole, senza le quali la comunicazione non è possibile.

La preghiera si è evoluta nel tempo in Israele e nella chiesa cristiana: da forme esteriori, fondate quasi esclusivamente sul linguaggio del corpo e ridotte all’assemblea del popolo (famiglia, clan, tribù e qehal), la preghiera si è trasformata in un dialogo con Dio dell’assemblea cultuale (nella sinagoga e nella chiesa), e del singolo individuo. Del linguaggio esteriore si è passati al linguaggio interiore, la preghiera del cuore, della mente, dello spirito. Dall’aperto della campagna si è passati al chiuso dei templi, e addirittura al chiuso della cameretta o dell’interiorità.

Ci sono molte forme di preghiera: la preghiera assume forme diverse perché diversi sono i nostri stati di animo, se comunichiamo con Dio attraverso la preghiera, comunichiamo qualcosa, non solo dei contenuti o delle richieste, ma anche il nostro stato di animo, i nostri sentimenti: ringraziamento, ansia, preoccupazione per noi o per i nostri cari (o per il mondo), gioia, paura, depressione, malattia e angoscia, colpa, senso di appartenenza, ecc. Si può pregare in molti modi: i cristiani abbiamo privilegiato il linguaggio della parola articolata, ma si può pregare con la danza, con la mimica e la gestualità, con il pensiero del cuore e della mente, con la concentrazione del pensiero o con la sospensione di ogni pensiero per contemplare interiormente.

IL SACRIFICIO, questa parola significa in realtà compiere qualcosa di sacro perché la realtà consacrata PASSA, transita dal profano al sacro per diventare una realtà con-sacrata (o sacrificata, tenete conto che l’aggettivo qadosh in ebraico non significa in primo luogo SEPARATO da Dio per il culto o servizio a Dio, ma la potenza che compie questo passaggio di una persona, un oggetto o animale dal profano al sacro). Ogni sacrificio implica tre dimensioni. La prima consiste nel dono che si fa, può essere un animale, un oggetto, un prodotto della terra, una vittima propiziatoria o semplicemente il se dell’offerente, qualcosa che significhi la sua esistenza o vita. Presentare un dono apre a sua volta una doppia dimensione, la prima è pattizia o contrattuale, si dà, si offre per ricevere qualcosa in cambio, la seconda semplicemente, il dono si offre come omaggio riverente per rendere propizia, benevolente la divinità verso l’offerente, anche in questo caso è evidente la dimensione utilitaristica, offro per ricevere qualcosa in cambio. La seconda dimensione del sacrificio è quella di espiazione, il sacrificio è in relazione con la dimensione oscura del male (del peccato) che sfiora l’uomo e lo contamina, il sacrificio consente la purificazione e il ritorno alla condizione primigenia di innocenza. La terza dimensione del sacrificio è quella di aprire la possibilità di entrare in comunione con la divinità per ricevere il suo favore, normalmente i sacrifici si concludono con il pasto sacro (la cena alla quale partecipa Dio stesso). Nelle religioni viventi possono essere presenti le tre dimensioni del sacrificio o una sola, o due, il sacrificio può essere inteso in maniera simbolica o spirituale, o in maniera materiale, fattiva.

Alcuni definiscono la meditazione come una forma di preghiera, la considerazione pertanto all’interno delle FORME che assume la preghiera in certe tradizioni religiose. La meditazione ha una dimensione interiore e silenziosa, consiste nel rientrare in sé, mentre la preghiera ci porta “fuori” (ad intra – ad extram). Ci sono è vero forme di meditazione guidate e comunitarie, ma il risultato che si cerca è quello dell’interiorizzare del sentimento, della “visione” meditativa di sé come una parte della realtà avvolta o dentro del sacro, o questa è l’alternativa di alcune religioni orientali, la scoperta del sacro dentro di noi, in una parte di noi. La dimensione che si apre con la meditazione è esistentiva, la mente e il cuore diventano una cosa sola (si risolve la dicotomia sentimento – pensiero), la concentrazione permette di percepire attraverso l’organo interiore che risulta dell’unione di sentimento e pensiero (terzo occhio, intuizione mistica, ecc.) ci permette di vederci in unione con il sacro (o di fare esperienza, o di toccare od essere toccati dal sacro).Nei Salmi leggiamo spesso espressioni come questa (dal Salmo 119 prendo questo esempio): “ti siano gradite le meditazioni del mio cuore ( che è la mente in quanto soggetto intimo e principio dell’individuazione). La meditazione porta a “contemplare”, ci conduce verso “la visione” interiore, ci aiuta a “vedere” dentro di noi quello che sarebbe l’oggetto della meditazione, e cioè di cogliere l’istante in cui si incontrano “colui che medita” – noi -, con colui sul quale meditiamo – il sacro, Dio -. Questa esperienza a cui ci conduce la meditazione si chiama illuminazione.