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Colossesi 3:12-17

12 Vestitevi, dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. 13 Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi. 14 Al di sopra di tutte queste cose vestitevi dell'amore che è il vincolo della perfezione. 15 E la pace di Cristo, alla quale siete stati chiamati per essere un solo corpo, regni nei vostri cuori; e siate riconoscenti. 16 La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente, ammaestrandovi ed esortandovi gli uni gli altri con ogni sapienza, cantando di cuore a Dio, sotto l'impulso della grazia, salmi, inni e cantici spirituali. 17 Qualunque cosa facciate, in parole o in opere, fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù, ringraziando Dio Padre per mezzo di lui.

La nostra pericope comincia con un grande “dunque” (congiunzione conclusiva). Un “dunque” teologico che viene nell’epistola dopo una parte fortemente cristologica.
In Cristo abbiamo la redenzione. In Cristo abbiamo il perdono dei peccati. Egli è all’origine di ogni cosa. Tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di lui. Cristo è perciò oltre che fulcro della soteriologia, (dottrina della salvezza) anche della cosmologia (dottrina della origine di tutto). Egli è il capo della chiesa. In lui abita tutta la pienezza della deità. Egli, mediante la sua croce, riconcilia tutte le cose. Egli ci affranca da una visione di Dio legata alla obbedienza pedissequa della legge e dai mille precetti, anche alimentari, che intendono condizionare la nostra vita: “non toccare, non assaggiare, non maneggiare”.

“DUNQUE”, introduce un passaggio della lettera non di tono minore, ma conclusivo e perciò decisivo.
Tutto questo discorso su Cristo, ci porta a un “dunque” che riguarda noi stessi.
Dunque qual è il profilo del cristiano? In che rapporto il credente si pone rispetto a questo Cristo?
Questo non è il momento di generici auspici o esortazioni finali, ma al contrario il punto a cui mira il lungo discorso fatto.

Quest’anno, per noi è stato, da un punto di vista della catechesi, segnato da una lunga, e profonda meditazione sul Cristo e sulla sua identità, attraverso le pagine del Vangelo di Giovanni.
Adesso siamo arrivati alla seconda conclusione, all’epilogo, cioè al capitolo 21. E viene perciò il momento di dire un grande “dunque”.

L’apostolo si appresta a presentare un identikit, o un profilo del cristiano.
E lo fa usando due immagini suggestive: quella della vestizione e quella della abitazione.

“Dunque, vestitevi!”
Ogni giorno dopo le nostre pulizie personali, più o meno rapidamente, viene il momento in cui ci vestiamo.
Ci vestiamo per uscire di casa.
Anche se non ce ne accorgiamo, ognuno di noi osserva un codice di abbigliamento.
Se fai il carpentiere in un cantiere, non esci in giacca e cravatta. E se fai l’insegnante di educazione fisica, indosserai probabilmente una tuta da ginnastica. In alcuni casi il dressing code è più rigido che in altri. Quindi non ci presentiamo agli altri a casaccio. Ma indossiamo ciò che è più adeguato rispetto a quel che andiamo a fare.
D’altra parte, non indossiamo un unico capo. Vestiamo un intimo e poi qualcosa che copre il sopra: una maglietta, una giacca, e un sotto: un pantalone, una gonna ecc.
Il nostro vestirci è anche legato alla stagione caldo o freddo (questo è tempo di cambio di stagione) o perfino alla giornata specifica: piovosa, o secca.
Tutto questo avviene, soprattutto nei giorni feriali, con una certa rapidità. Mediamente gli uomini spendono un tempo decisamente inferiore alle donne, ma comunque il gap è decisamente minore rispetto al passato.
Ora questa azione quotidiana, che precede il nostro andar fuori e presentarci alla società, diventa, nelle parole dell’apostolo, una metafora per parlare di come il cristiano si presenta agli altri.
Il popolo di Dio, santo, amato, eletto, che adesso si estende alla comunità dei credenti in Cristo, ha già in questa definizione di base un dress code.
E allora che panni vestono questi cristiani?
Indossano sentimenti di misericordia (o di compassione), benevolenza, umiltà, mansuetudine o mitezza, pazienza.
Ora, su ognuna di queste parole, o virtù, potremmo sostare a lungo per analizzarne anche le sfumature.
E’ evidente che qui ne abbiamo alcune esemplificative, ma non sono solo le queste. Ad esempio potremmo aggiungere: il coraggio, la franchezza, la sincerità, la gioia, la passione per la giustizia ecc.
Tutti tratti che in qualche modo, sono riconducibili al modo di essere uomo di Gesù.
Ovviamente potremmo anche vedere come questi comportamenti stiano tra loro in una relazione dialettica e non solo sommandosi l’uno con l’altro. La mitezza va bene, ma appunto va messa insieme al coraggio. In certi casi, pensate al gesto di Gesù nel tempio, quando rovesciò i tavoli dei cambiamonete. In quella circostanza non apparve così mite. O anche l’umiltà che cessa di essere una virtù se diviene un atteggiamento di persone che non hanno alcuna autostima.
Insomma ognuna di queste caratteristiche è come un filo di cotone di colore diverso, che intrecciati ad arte tra loro formano il disegno del nostro vestito.
Un abito anche cangiante. Bisogna cioè sapersi vestire a secondo della circostanza, del momento.
Quel che conta, a mio avviso, non è la singola virtù, ma l’abito che le mette assieme, in una forma, per ognuno diversa.
Certo ci sono anche cristiani che sembrano fatti con lo stampino. Sembra che quando ne conosci uno, li hai conosciuti tutti, talmente si vestono allo stesso modo, si comportano allo stesso modo, agiscono allo stesso modo, parlano allo stesso modo.
Per noi non è così. Noi facciamo un vanto delle nostre differenze. Le sfumature dei colori sono molto diverse tra una persona e l’altra.
E tuttavia, seppure con tutti i distinguo e le sfumature cui facevo accenno prima, questi elementi devono essere presenti. Altrimenti si rischia di vanificare il “dunque”.
Siamo certamente liberi e creativi, ma c’è un “dunque” a cui non possiamo sottrarci. A fronte di un Cristo che crea, ricrea, ama perdona, salva, riscatta, libera ecc., deve corrispondere un modo di essere uomo o donna che sia conforme a questo profilo, pur non avendo la pretesa di diventare dei piccoli messia.
Non dobbiamo sottovalutare che in questo richiamo a “vestirsi”, c’è nel testo un volontarismo umano.
Tutto ciò che caratterizza la figura di Cristo, e la salvezza, appartiene al registro della grazia, ma poi viene il momento in cui tocca a noi fare delle scelte. Abbiamo bisogno di un metodo per perseguire la nostra santificazione. Bisogna acquisire una disciplina spirituale.
Che significa questo? Significa che, in qualche modo, questi “habitus” da indossare, devono indirizzare e controllare i nostri istinti, le nostre azioni e le nostre parole. Non possiamo metterci alla guida e diventare dei pirati, ed usare il linguaggio violento e scurrile che usano tante persone. Alcuni, quando mettono in moto il motore si trasformano: la gentilezza, la mitezza, la compassione, vengono completamente soppresse in nome di comportamenti, a volte, davvero imbarazzanti.

Ora, si potrebbe obiettare, tutto questo non produce delle persone inautentiche? Non è forse causa di quelle personalità ipocrite, che spesso sono individuate tra i credenti di tutte le religioni. Persone che di fatto, indossano una maschera. Fuori si presentano, educate, gentili e compassionevoli, ma dentro covano sentimenti cinici e volgari?
Dobbiamo ammettere che c’è del vero in questa critica. E infatti, il profilo dell’uomo o della donna ipocrita, Gesù lo ha riscontrato proprio tra i credenti. Alcuni così scrupolosi nella osservanza della legge, facevano di
tutto per aggirare il precetto della legge. Ciò che è consacrato a Dio, può essere sottratto al prossimo, dicevano alcuni, e in questo modo si sottraevano all’obbligo di aiutare persone deboli o perfino i propri stessi genitori.
Vigiliamo dunque che le nostre virtù, non siano piuttosto che abito una mascherata, che prima o poi si manifesterà come grottesca.

Ma il testo ci offre l’antidoto a questa tendenza e lo fa con la seconda parte.
Qui all’immagine del vestirsi succede quella dell’abitare, o meglio dell’essere abitati.
Se vogliamo evitare questa schizofrenia spirituale tra ciò che siamo chiamati a fare e ciò che siamo, ecco due suggerimenti:

Il primo riguarda l’essere abitati dalla pace di Cristo “per essere un solo corpo”, specifica l’apostolo.
Essere creature pacificate. Avere la pace nel cuore è la premessa per essere strumenti di pace anche per gli altri. La pace nel cuore la possiamo avere solo se ci sappiamo profondamente perdonati. Conosciamo i nostri limiti e i nostri difetti. Abbiamo imparato anche prenderci in giro e riconoscere la trave che abbiamo nell’occhio, soprattutto quando vediamo la pagliuzza nell’occhio dell’altro. Ma sappiamo che siamo salvati per grazia mediante la fede. Siccome Dio ci ha perdonati in Cristo Gesù, sappiamo a farlo anche noi stessi. E così abbiamo pace. Pace nel cuore, pace con Dio, reali premesse per far pace anche col resto del mondo.
Avere un cuore indiviso è la premessa perché l’esercizio delle virtù non sia una ridicola recita, ma diventi riflesso del nostro modo di stare al mondo. E quindi, quando ci mettiamo alla guida della nostra automobile, o quando partecipiamo ad una riunione condominiale, sappiamo continuare ad essere pazienti, miti, compassionevoli, benevolenti.
La pace nel cuore fa aderire, fa corrispondere, fa coincidere, quel che siamo dentro con quel che facciamo fuori.
Dunque la pace nel cuore.

Ma non è tutto: “La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente”.
Ecco un altro suggerimento, molto concreto, per non essere degli ipocriti e degli sdoppiati.
Ma qui il consiglio si fa molto specifico: “ammaestrandovi ed esortandovi a vicenda gli uni gli altri con ogni sapienza, cantando ci cuore a Dio, sotto l’impulso della grazia, salmi, inni e cantici spirituali”.

Come non riconoscere qui l’importanza della comunità. Qui la chiesa appare come una officina, in cui ognuno partecipa al lavoro dell’altro. Ci educhiamo alla fede insieme. E i termini usati richiamo il culto e le nostre liturgie: intonare le nostre voci insieme, imparare il contrappunto, esortarci, correggerci, coordinarci, collaborando, partecipando…
La chiesa come una palestra, in cui facciamo degli esercizi che scolpiscono il nostro corpo spirituale.
“Dunque” fratelli e sorelle, in un certo senso il “dunque” ben si addice anche a questi nostri anni trascorsi con voi e che ormai volgono alla fine. “Dunque” dopo tutti questi anni, cosa abbiamo imparato gli uni dagli altri? Quali progressi spirituali abbiamo compiuto? Come la predicazione di Cristo ha impattato il nostro modo di essere uomini e donne, credenti e cittadini?
Bisogna che proviamo a rispondere individualmente e comunitariamente. E’ necessario che ciascuna e ciascuna si faccia carico della propria risposta.
Tutto questo diventa particolarmente importante mentre si apre una nuova fase della nostra vita comunitaria, con altri pastori, altri collaboratori e collaboratrici nella vigna del Signore.

“Dunque, io?”
Ecco vorrei che finisse così questa meditazione, con una domanda su noi stessi, non per biasimarci, ma per rispondere con un impegno:
“Dunque io voglio fare qualcosa per questa chiesa. Forse posso diventare monitore o monitrice, forse posso offrire il mio ascolto, forse posso aiutare i giovani a crescere, forse posso aiutare nelle mie competenze
immobiliari. Forse posso piantare un chiodo. Forse posso sostituire una lampada. O forse posso distribuire il pane della cena. O forse posso fare una telefonata, scrivere un post incoraggiante per gli altri. Forse posso cantare, forse posso pregare, forse posso metterci una buona parola.

Il mio “dunque”, rispetto a questi 8 anni trascorsi qui a Milano, non ha incertezze:
“Dunque si può essere pastori di una chiesa composta da persone così diverse. Dunque si può svolgere il ministero della parola in piena collegialità come abbiamo fatto in questi anni col Consiglio di Chiesa.
Dunque si può essere chiesa accogliente, capace di superare l’ansia di dover giudicare il fratello e la sorella senza averlo ascoltato, magari sulla base di un versetto biblico che chissà se ho capito bene”
Dunque si può predicare a dai volti che scorgi attenti, interessati, reattivi.
Dunque Cristo davvero può prendere forma nelle nostre piccole e nondimeno preziose comunità, ai suoi occhi.
Dunque, grazie Chiesa di Milano!