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Mettere a dimora la speranza

Testo: Isaia 65, 17-25 e Apocalisse 21, 1-7 22-27 e capitolo 22 1-5

Veniamo da un anno difficile e non ancora concluso. Abbiamo sentito molte “voci di pianto e grida di angoscia”. Nei casi più gravi siamo perfino stati privati di poter sentire quelle voci e quelle grida a causa dell'isolamento e dei tubi che attraversavano la trachea.

Ma queste voci ci sono giunte lo stesso da molte persone e per molte ragioni. Da chi ha perso il lavoro, e chissà se mai lo ritroverà, a chi ha pianto l'impossibilità di socializzare con i propri i amici.

E' conclamato comunque che la inesattezza più grave che sia stata detta in questo periodo è che eravamo sulla stessa barca. Non è stato affatto così. Ci sono quelli che proprio in questo anno si sono comprati un panfilo e non ci hanno neppure pagato le tasse sopra (penso alla grande distribuzione alimentare, o ad esempio, le grandi compagnie di Assicurazione, o grandi multinazionali di vendita online), e infine in questo mare, abbiamo visto navigare non pochi pirati, persone che hanno speculato e fatto affari, anche loschi, sulla salute della gente. Tutto questo speriamo, non finisca insabbiato, ma che sia fatta giustizia.

C'eravamo illusi all'inizio che da questa pandemia potesse scaturirne qualcosa di buono, ma adesso prevale un sentimento pessimistico: ci siamo ulteriormente incattiviti, siamo divenuti più egoisti, più menefreghisti, più individualisti. Questo parlando in linee molto generali.

E noi? La chiesa di Cristo? Ho l'impressione che anche in mezzo a noi serpeggi un sentimento di tristezza se non proprio di depressione.

La Scrittura ci viene incontro con questi testi. Uno scritto prima della venuta di Cristo, e l'altro dopo. Come non notare che hanno molto in comune in termini di immagini evocative ed aspettative. Testi escatologici, come si dice, che riguardano che cose ultime.

Come la ricerca sul Gesù storico ha evidenziato, Gesù stesso aspettava l'imminente irruzione del Regno di Dio. La chiesa cristiana ha coltivato questa stessa imminente attesa. Ma poi ha dovuto fare i conti “teologici” col ritardo.

Alcune chiese hanno finito per credere, e voler far credere, che esse stesse fossero il Regno. La grande organizzazione ecclesiastica, il proprio magistero, le proprie tradizioni, e i santi... Inutile ripetere che noi protestanti non siamo stati affascinati da questa visione. Al contrario abbiamo ritenuto che fosse una maniera per usurpare un potere che non spettava alla chiesa.

Altri hanno risolto il problema riaffermando, quanto scrive Pietro: che un giorno è come mille anni e che mille anni sono come un giorno, e che a noi non è dato sapere quando e in che modo il Regno verrà.

Altri ancora hanno dato una risposta morale: trasformando la vita del cristiano fondamentalmente in etica e trascurando del tutto l'escatologia, il discorso sulla fine.

E molti tra i protestanti hanno aderito a quell'approccio, che ha avuto in Rudolf Bultmann l'esponente teologico più autorevole, secondo il quale l'escaton sarebbe il momento in cui scegliamo Cristo, diciamo di “sì” alla sua autorità per noi. Riducendo così la visione della nuova Gerusalemme all'attesa della vita eterna individuale, quasi sempre collocata dopo la morte.

I testi che abbiamo letto ci offrono un'altra strada, che vale la pena considerare. Non una fantasticheria personale. (Il mondo fantastico può essere quello di un esilio volontario in cui ci si rifugia per evasione o quando la realtà del mondo diventa insopportabile).

Il testo biblico è piuttosto quello della visione che irrompe e apre uno squarcio per farci vedere una strada nel mare, una possibilità nell'impossibilità.

La nuova Gerusalemme.
La prima, quella della visione di Isaia, è quella a cui devono mettere mano gli israeliti ora che sono tornati dalla cattività. Tutto è in rovina. Non è rimasta pietra sopra pietra. C'è tanto lavoro da fare al punto che si potrebbe essere scoraggiati anche solo a cominciare l'impresa. La visione quindi anticipa le bellezza di una città ricostruita, non solo nelle sue case, ma anche nelle sue istituzioni, e soprattutto nella giustizia. Una città in cui ci possa essere vita e sicurezza e non più sfruttamento. Ma la descrizione è anche visionaria nel senso che intravede un “novum”, qualcosa che non si era mai visto prima: longevità, salute, protezione della vita più debole e dei bambini e fine della sofferenza e dell'angoscia.

La visione di Giovanni è anche un vedere mediante lo Spirito, che va oltre. E' la fine di tutto ciò che minaccia la vita. E' una Gerusalemme che non si eleva dal basso, ma che scende dal cielo. E' dono, non conquista dello sforzo umano.

Al centro di questa visione c'è Dio nella figura dell'Agnello, che è Cristo. Lui stesso è la sorgente di luce di questa nuova città di Dio. Il “novum” qui è accentuato, in un riscatto che è ancora più profondo e che arriva non solo a prolungare la vita, ma a sconfiggere la morte.

Nell'uno e nell'altro caso la visione riguarda l'individuo non meno che il popolo, il mondo intero. L'escaton è cosmologico, riguarda anche la terra: le coltivazione, l'acqua e l'energia rinnovabile della luce.

E allora? Il dunque di questa meditazione è che se vogliamo davvero uscire da questa possibile crisi depressiva, bisogna sollevare lo sguardo. Bisogna mettere nuovamente a dimora la speranza e non più a livello individuale.

Perciò, mentre celebriamo questo culto che inaugura una nuova fase della vita comunitaria, oggi è il momento di affermare l'importanza della chiesa anche intesa come comunità. La chiesa è il luogo in cui la fantasticheria del ritirarsi in sé, diventa visione e la visione si fa sogno collettivo e questo diventa un principio speranza capace di orientare la storia. Non siamo chiamati ad alimentare la nostalgia. Non dobbiamo sperare che tutto passi come fosse stato solo un disturbo, per continuare una storia sempre noiosamente e tragicamente eguale a se stessa. E' piuttosto il momento di osare una nuova visione del mondo, della vita, della politica, delle relazioni personali. La Scrittura, non come parola infallibile della versione fondamentalista, ma come finestra attraverso la quale ci affacciamo sul mondo nuovo e ne scorgiamo le anticipazioni. Il cammino comunitario fa crescere la piantina della speranza. Se non sapremo coltivarla, non avremo nulla da dare ai nostri figli e figlie e non basterà di certo il nostro insegnamento morale.