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Per-dono? Per-convenienza? Per lo Spirito!

Testo: Matteo 18,21-35

E' stato assolto il papà di un bambino di 2 anni, accusato di omicidio colposo e di abbandono di minore,  del proprio figlio, per averlo dimenticato nella sua auto, ed averne determinato in tal modo il decesso per asfissia. La decisione del tribunale è stata presa dopo una perizia psichiatrica che ha certificato una amnesia transitoria di cui era affetto il padre.

"Questo dolore mi sfianca l'anima.  Mi porterò questo rimorso per tutta la vita", queste alcune espressioni di commento del padre.

Ci sono stati casi analoghi in cui i genitori sono stati condannati, con pena sospesa.

Siamo qui davanti ad uno di quegli episodi in cui il colpevole è una persona assolutamente bisognosa di essere perdonata, avendo fatto del male irrimediabile e involontario a chi più amava. A colpevoli del genere non può bastare, evidentemente, una sentenza clemente della corte.

Infatti, il colpevole è chiamato a dare un perdono e se stesso, senza avere però la capacità di farlo, sapendo che questo offenderebbe la memoria di quel bambino, vittima  innocente della propria fatale distrazione.

70 volte sette chiederà perdono di sera, prima di andare a letto e 70 volte sette, rischierà di non sapersi perdonare la mattina. Questa la condizione di scacco della persona, di questo caso emblematico.

Adesso proviamo ad avvicinarci alla parabola raccontata da Gesù.

Siamo davanti ad un re, probabilmente un Sultano di un regno pagano dell'antico oriente.

Il suo amministratore ha accumulato un debito, nella nostra valuta, dell'ordine di svariati miliardi di euro.

E' evidente che non può non esserci dolo. Una cattiva amministrazione da sola non sarebbe bastata a determinare un disastro finanziario del genere.

La parabola ci ricorda una verità della vita: prima o poi arriva la resa dei conti!

Dinanzi alla insolvenza non può non essere evidente a entrambi, il re e il suo fiduciario, che il danno è irreparabile.

Perciò l'espressione "abbi pazienza con me e ti pagherò tutto", compreso la teatralità con cui l'inadempiente si prostra per invocare pietà, sono alquanto sospette.

"Ti pagherò tutto" è una menzogna, che esprime una finta contrizione, con la quale, forse, l'amministratore cerca soltanto di guadagnare tempo, per prepararsi una via di fuga.

Il pentimento rischia di essere una recita che serve solamente a mitigare la pena.

Nei tempi attuali, a questo punto, si sarebbe aperta una discussione sulla rinegoziazione del debito. Ma a quei tempi il sultano decide di comminare la pena, esemplare anche per tutti gli altri amministratori.

Dunque egli decide di venderlo schiavo assieme alla sua famiglia. Una misura tanto crudele che il diritto ebraico non riteneva possibile.

Da quel momento in poi, il colpevole, sarebbe stato legato alla sua colpa per sempre. La punizione  aveva, in questi casi,  un carattere definitivo e senza termine. Il colpevole di un danno irreparabile, non è più una persona che ha commesso una azione deplorevole, ma è la sua azione. Se ha rubato, è un ladro. Se ha commesso un omicidio, è un assassino. Egli è divenuto nella sua stessa essenza, l'azione grave che ha commesso.

"La tua azione malvagia ti cerca e ti trova di giorno e di notte. Se ti rivolgi al futuro essa ti prende alle spalle, ed il passato di paralizza. Se ti rivolgi indietro alla memoria, ti trafigge il petto, togliendoti il respiro".  "Questo dolore mi sfianca l'anima" aveva detto il padre del bambino.

Ma cosa succede?

Accade la prima cosa di cui dobbiamo stupirci. Il Sultano fa qualcosa che nessun sistema legislativo può fare: lo perdona.

Qui lo stupore sta nel carattere assolutamente gratuito: perdono, infatti porta  la parola "dono" in sé. Qualsiasi altro "perdono" che preveda uno scambio, non è più perdono, ma "per-scambio" o "per-convenienza". Ricordate tutto il dibattito sui pentiti, di mafia o di terrorismo? Lì la parola "per-dono", aveva a che vedere con una convenienza dello Stato e del reo, e quindi la parola esula completamente dal significato che essa ha in questa parabola.

L'unica giustificazione di questo perdono sta nella "compassione" del Sultano. Il termine che letteralmente significa "sommovimento delle viscere", si riferisce ad una interiore necessità del Sultano, e non a un calcolo di convenienza.

Il perdono del Sultano, sta per quello di Dio: è gratuito, è "illegale", è generato dalla intima necessità di Dio di amare.

Poi, però, c'è la seconda parte.

"Uscito", dobbiamo intendere "appena uscito", ovvero in uno spazio-tempo troppo breve per ammettere qualsiasi amnesia transitoria. Quando ha ancora la mente invasa da quel condono inatteso che lo aveva affrancato da una situazione di dura servitù per il resto dei suoi giorni, succede che l'amministratore scellerato, si trova davanti ad un suo sottoposto che ha un debito con lui, modesto; l'equivalente del salario di 100 giorni di un lavoratore dei campi. Qualche migliaia di euro.

Egli rivolge una supplica all'amministratore perdonato e ripete le sue stesse parole "Abbi pazienza con me e ti ripagherò". Con la sola differenza, non da poco, che qui la richiesta ha una sua plausibilità. Il danno c'è ma si può riparare. Avendo un po' di tempo l'uomo potrà scontare il debito. Si richiede, dunque, solo la clemenza per la quale il debito sia rateizzato.

E qui il lettore deve stupirsi nuovamente.

Chi legge infatti, non può aspettarsi altro che un atteggiamento comprensivo da parte dell'amministratore-appena-perdonato. E invece, no!.

"Egli lo strangolava", il verbo indica un prolungamento della presa che letteralmente toglieva il respiro al sottoposto.

Scopriamo dunque che la stessa persona, debitore e creditore, adotta due registri completamente diversi, due diverse contabilità.

Ma questo non è possibile, e l'esito tragico della parabola ne è testimonianza.

In effetti questo è il messaggio di tutto il Vangelo di Matteo: da una parte il perdono, quello che viene da Dio è incondizionato. La Grazia di Dio ha un prezzo talmente alto che può essere solamente gratuita. Dall'altra parte questa Grazia, esige, senza esitazioni che anche l'uomo impari a praticare il per-dono.

Qualcuno ha detto che la richiesta del Padre Nostro, "rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori" viene appena dopo "dacci oggi il nostro pane cotidiano", perché dopo il pane materiale,  gli esseri umani hanno bisogno del perdono per vivere..

Ma il Sermone sul Monte sottolinea che "Se non perdonate agli uomini, neppure il Padre vostro celeste perdonerà a voi". Quindi la misura della parabola è perfino aumentata, visto che il perdono che ci dobbiamo gli uni gli altri viene addirittura anteposto a quello di Dio!

La parabola, dunque, con particolare efficacia narrativa ci mette davanti al dramma del bambino morto asfissiato: la necessità del perdono, non come elemento aggiuntivo di una vita particolarmente religiosa e pia, ma come necessità per vivere.

Il perdono come il pane, l'aria, l'acqua .. dall'altra parte, la nostra incapacità a perdonare, anche per molto meno.

Quel padre bisognoso di perdono, ma anche giudice implacabile di se stesso, si trova in quelle condizioni, perché non c'è più chi possa offrire quel perdono. Quando la vittima non c'è più, chi potrà perdonare? Chi è autorizzato?

Simon  Wiesenthal nel libro "Il Girasole. I limiti del perdono", ce lo ricorda. Egli durante il suo periodo di internamento, va a lavorare in un ospedale dove si trova un SS in fin di vita. Il giovane gli chiede di perdonarlo per i suoi terribili  misfatti. Sente il bisogno di essere perdonato da Wiesenthal a nome di tutti gli ebrei. Ma Wiesenthal si ritrae. Egli sente che non può perdonare per interposta persona. Poi però, evidentemente turbato da quella richiesta e dalla sua risposta, scrive la storia e chiede a uomini di fede e di cultura di valutare il suo operato.

Perdonare è mestiere di Dio. Perciò quando Gesù perdona i peccati all'uomo paralitico, calato dal tetto (Marco 2) perché lo guarisse, i giudei si scandalizzano. Infatti i  miracoli li possono fare in molti, ma perdonare i peccati è una faccenda soltanto di Dio.

Similmente, fratelli e sorelle, quando siamo capaci di perdonare per un torto subito, dobbiamo essere ben consapevoli che quel che opera in noi è lo Spirito del perdono. Noi non ne siamo capaci.

Eppure quando perdoniamo siamo profondamente ripagati da quel sollievo che viene per essere finalmente liberati dal risentimento e dall'odio. Viceversa la nostra vita rischia di rimanere avvelenata dai torti subiti, come dai  morsi di una vipera.

Bisogna perdonare, come bisogna amare anche i  nemici. Il Vangelo ritiene necessarie e urgenti le cose che siamo incapaci di fare. Lo scacco del padre colpevole, come vedete, è di tutti noi.

Oggi celebriamo la pentecoste. E' la festa in cui la chiesa ricorda quel che è stato possibile per l'azione dello Spirito Santo in noi e che senza di Lui non avremmo mai potuto compiere.

Invochiamo lo Spirito, allora, perché Egli ci aiuti a compiere questo straordinario miracolo: elargire, in maniera del tutto gratuita, quel perdono di cui, siamo stati, similmente anche destinatari.

Non riuscirci è umano. Non provarci non è cristiano.  Farcela, è segno dello Spirito Santo in noi!