Questo sito web utilizza cookie per fornirti la migliore esperienza di navigazione.

La samaritana al pozzo di Giacobbe (un'esegesi narrativa)

Testo: Giovanni 4, 1-42

Il mio nome? Già, pur essendo divenuta molto famosa, non lo conoscete. Ma va bene così, non importa. Chiamatemi, se volete, Ognidonna.

La mia nazionalità? Appartengo al popolo dei samaritani e provengo da un piccolo paese, non tanto distante da Sicar, Mahnaym.

Sono io quella di cui parla quella storia scritta che racconta di un incontro col Nazareno al pozzo di Giacobbe.

Innanzitutto confermo quanto è stato scritto su quella vicenda. Fui io stessa a raccontarne i dettagli ad uno scriba cristiano ed insieme concordammo, a mia tutela, di non divulgare il nome.

Ho conservato una copia di quello scritto e spesso lo rileggo. Ogni volta mi sovvengono nuovi dettagli e mi assale una rinnovata commozione come se mi ritrovassi lì, di nuovo .

Quel che non sapete è che fui anche tra coloro che, seppure ad una certa distanza, furono presenti al suo supplizio in croce.

Lasciate che sorvoli su molti dettagli di quell'incontro che ben conoscete, per concentrarmi su alcuni particolari di cui sapete solo in parte, o che ignorate del tutto.

Andavo al pozzo a mezzogiorno per fare approvvigionamento d'acqua per la casa.

Era un lavoro da donne. Ma forse sarebbe meglio dire che era una fatica da muli. Fare una lunga strada per giungere al pozzo, mandar giù il secchio e tirarlo pieno d'acqua, con l'aiuto di una fune che segava le mani fino a farle sanguinare. E, infine, caricarsi la brocca sulla testa e fare il viaggio di ritorno.

Le altre ci andavano di mattina presto e, più spesso ancora, verso il tramonto.  E mentre attendevano il loro turno scambiavano qualche chiacchiera. Era lì che spesso alle giovani vergini venivano svelati, dalle maritate, i dolci segreti dell'amore.

Io c'andavo a mezzogiorno. Non era tanto per risparmiarmi la fila, quanto per evitare le chiacchiere. Spesso avevo sorpreso alcune di loro a spettegolare sul mio conto, salvo poi ammutolirsi se chiedevo loro cosa avessero da sparlare.

Ma andarci a mezzodì significava raddoppiare la fatica.

Quel giorno, mentre mi avvicinavo, scorsi una figura seduta presso il pozzo. Esitai. Stavo per tornare indietro e rimandare l'impresa ad altro orario. Ma avevo già fatto troppa strada e a casa mi aspettavano altre incombenze. Avvicinandomi scoprii che si trattava del profilo di un uomo. Quando vi giunsi scorsi i tratti di un volto stravolto dalla fatica. Doveva aver fatto un lungo viaggio. Era sudato. Sembrava fosse sul punto di collassare.  L'incontro con un uomo al pozzo, non era usuale benché ricordassi che Rebecca proprio lì, vi incontrò Giacobbe. "Alle fonti nascono gli amori" recitava un proverbio del mio paese che mi sopraggiunse tra i tanti pensieri.

L'uomo mi chiese, "Dammi da bere". Non fu sgarbato, ma neppure gentile. La richiesta fu senza preamboli, sbrigativa, forse perché dettata da una urgenza non differibile. Ovviamente avendolo visto in quelle condizioni gliene avrei versato in una ciotola appena ne avessi tirato su il primo secchio, anche senza che lui me lo avesse chiesto.

Anzi, come ho già raccontato, la richiesta mi generò imbarazzo: un uomo non rivolge la parola in un luogo pubblico ad una donna, e dall'accento capii oltretutto che era un giudeo.  

Dal pozzo, in lontananza, si scorgeva la cima del monte Garizim,  promemoria della discordia coi giudei. Lì  infatti,  avevamo costruito il nostro santuario. I giudei non ce lo perdonarono mai. Eravamo considerati scismatici, attentatori della unità della fede stabilita nel tempio di Gerusalemme. E la nostra accoglienza di altri culti oltre quello di Iahvè, era considerata acquiescenza col paganesimo, idolatria. Tutto ciò aveva consolidato, nel tempo, una ostilità etnica che sfociava nel  razzismo. E ad essere considerati inferiori, naturalmente, eravamo noi samaritani. 

Mentre gli porsi la ciotola, gli dissi il mio stupore.

Ora, ecco un dettaglio della vicenda che chi ha letto soltanto il papiro di certo non conosce: egli ne prese e ne bevve. E  ne bevve con tanta avidità che più di una metà gli colò sulla barba e sulle vesti. Mi porse di nuovo la ciotola e gliene riversai. Gliela ridiedi e, la terza volta, se ne versò il contenuto sul capo.

Perché concordammo di omettere questo particolare? Già, perché?

Era ovvio? Scontato? O forse perché era irriverente, verso colui che si manifestò, proprio in quella circostanza come il Messia? "Sono, io, io che ti parlo!"

Fui io stessa a suggerire di tralasciare quel dettaglio, per una semplice ragione.

Vi ho già detto che fui presente alla croce?

Ebbene, la sua ultima parola, prima di rendere lo spirito fu "Ho sete!".

Disse così, proprio così! E  poi morì. E lo disse  rivolgendo il suo sguardo verso di me...  o almeno così mi parve. Allora capii che la sua sete, era durata fino a quel momento. Al pozzo egli estinse la mia arsura, ma la sua aspettava che fosse Dio stesso a placarla.

Siete sorpresi? Imbarazzati? Dovreste!

Come può il Messia, colui che porta la salvezza dei giudei al mondo intero, colui che offre un'acqua da cui scaturisce la vita eterna, essere egli stesso consumato dalla sete fino a morirne?

Che Messia è questo che promette di spegnere per sempre la sete altrui e non sa soddisfare la sua?

Questa domanda è rimasta con me per lunghi anni.

Ne ho pianto insieme, lacrime di commozione e di struggente dolore.

Al pozzo di Giacobbe la mia idea di Messia ne uscì profondamente trasformata. 

Al pozzo di Giacobbe incontrai la caparra del Dio crocifisso.

Tutto sapete di quella conversazione, in cui compresi, e voi con me, tante cose su Dio, lo Spirito, la vera adorazione, ma anche su me stessa. Una conversazione in cui trovai la fede e, nel medesimo tempo, fui liberata dai miei sensi di colpa.

Eh sì, parliamo un attimo di quella "colpa".

Cinque mariti avevo avuto e stavo con un uomo che non era neppure mio marito. Mi colpì quella sua profezia e glielo dissi. Mostrava di conoscere altrettanto bene le profondità dello Spirito di Dio e le oscure cavernosità del cuore umano. In quelle scarne informazioni biografiche, c'erano le ragioni del chiacchiericcio delle altre donne al pozzo, ma anche il giudizio senza appello dei loro uomini. Tutti pronti a profferire sentenze di condanna sul mio conto, ma nessuno era disposto a chiedermi: perché?

Ma la "colpa" era davvero tutta mia?

Due volte fu colpa del destino. Rimasi vedova. E il primo marito mi lasciò fulminato dalle febbri, meno di un anno dopo le nozze. E' rimasto l'amore della mia vita. Non c'è notte che non sogni di riabbracciarlo e che non speri di sognarlo. Per due volte fui ripudiata da uomini capricciosi che mi rinfacciavano  di non essere vergine quando mi sposarono. E del quinto, è bene che non vi parli, tali erano le violenze e i sonori  pestaggi che mi elargiva senza risparmio e senza ragione, perché spesso beveva fino a ubriacarsi e a rimanere accecato dalla violenza.

Strano, no? Ho subito dal destino e dagli uomini, ed ero io a sentirmi in colpa, sporca. Più tardi, un saggio discepolo mi spiegò  che capitava spesso che a vergognarsi fosse chi aveva subito i torti piuttosto che chi li aveva compiuti.

A quel pozzo, quel Messia, asciugato dal sole come un pesce secco e impastato di polvere appiccicata alla sua pelle, diede da bere a me, un'acqua di vita che mi restituì la dignità e la stima di me stessa, che il pregiudizio, e l'umana superficialità mi avevano tolto. 

Al pozzo di Giacobbe, quel giorno, non si incontrarono soltanto una donna e un uomo, una samaritana e un giudeo, ma il bisogno urgente di acqua di un viandante stanco, con i desideri di una donna che cercava una vita piena, affrancata dalla maledizione del giudizio altrui.

La sua sete e la mia: così diverse. Così reali. Così urgenti!

Quando si ha sete di acqua, non c'è tempo per pensare a cose come il senso della vita, la colpa, il perdono, l'amore. Queste sono fregole per gente pasciuta. Si cerca l'acqua e basta. La felicità è spegnere il fuoco dell'arsura. Niente di più.

Ma dopo, quando si è bevuto, ci si è rinfrescati e magari anche dopo aver fatto un bagno tonificante, resta un'altra sete, che perdurando ancora toglie le forze e piega l'anima: è la sete di giustizia, è la sete generata dagli oltraggi subiti, è la sete della indignazione per ogni prepotenza. Se non trovi l'acqua che toglie anche quella sete, resterai nella polvere anche se abiti la casa del principe. Di arsura si muore, ma si muore anche di inedia e di disperazione.

Il Signore che incontrai a quel pozzo era dotato di una diversa onnipotenza, rispetto a quella che avevo sempre immaginata. La forza che vi riconoscevo, era quella dell'amore: una forza che ti rende più vulnerabile, ma che può trasformare te stesso in una fonte che genera vita  e a cui altri possono bere.

Nel papiro è scritto che lasciai la mia brocca per annunciare agli altri samaritani quel Messia. Giusto.

Con quella brocca lasciai la mia vecchia vita. Mi liberai di quel destino inciso nelle mie mani sanguinolenti a causa della fatalità e della umana crudeltà. Mi lasciai ogni cosa alle spalle, per andare incontro all'avventura di una fede che non mi ha più abbandonata e non ha smesso di dissetarmi. 

Gli uomini a cui annunciai la Verità, fecero una esperienza molto simile, e divennero anche loro divulgatori della Nuova Via, presso altri samaritani.

Giudei e gentili, uomini e donne, gente di ogni popolo e cultura, e andate anche voi al pozzo di Giacobbe!

Li troverete un Messia assetato. Ma non vi scandalizzate. E' lui che toglie la sete. Avendola.

Andate e crederete. E non sarà più per le mie parole ma per la vostra stessa esperienza.