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Diretta Facebook 26 marzo

Davanti a Dio senza bisogno di maschere e mascherine
Da “Un giorno Una parola”:
Io confesso il mio peccato, sono angosciato per la mia colpa” Salmo 38, 18

La tristezza secondo Dio produce un ravvedimento che porta alla salvezza, del quale non c’è mai da pentirsi” II Corinzi 7, 10

Due testi. Il primo è il salmo 38. E’ una profondissima autoanalisi di qualcuno che ha sbagliato moltissimo e sente in sé tutto il peso del suo peccato. Ci sono espressioni di grande sofferenza fisica e morale. Vedi i versetti 4 e 8 ad esempio.
4 Poiché le mie iniquità sorpassano il mio capo;
sono come un grave carico, troppo pesante per me.
8 Sono sfinito e depresso;
ruggisco per il fremito del mio cuore.

Ma non rimane a macerarsi da solo col suo dolore ma apre il suo cuore davanti a Dio. E’ caduta ogni maschera (e mascherina!) che comunque una persona porta sempre quando agisce male e crea dolore a qualcun altro inventando le proprie ragioni, autoassolvendosi a più riprese. Il salmista (Davide? ) che sembra aver agito male nei confronti anche di amici e parenti che ora gli stanno lontani e che pare anche di aver pagato caro per la sua colpa, non si difende più e trasforma il suo dolore in supplica. Il versetto 11 è una curiosa situazione in cui il peccato del salmista è come il coronavirus, le persone sentono di dover tenere le distanze:
11 Amici e compagni stanno lontani dalla mia piaga,
i miei stessi parenti si fermano a distanza.

Mi vorrei soffermare però stasera un pochino anche sul testo di II Corinzi. Dalla lettera stessa noi comprendiamo un antefatto. Era successo qualcosa nella comunità, qualcosa di brutto  che nell’epistola non viene spiegato tranne che era stato il comportamento di una persona che la chiesa aveva in quel momento tollerato o forse anche appoggiato. Paolo però aveva scritto una lettera molto severa alla chiesa. L’aveva scritta – ne parla al capitolo 2, 1-4 – e della durezza della sua lettera era rimasto – si capisce fra le righe – anche un po’ preoccupato. Non era andato a Corinto di persona proprio per questa preoccupazione, e aveva mandato Tito. Paolo parla di questo incontro fra la chiesa e Tito in questi termini: (II Cor 7, 6-10)
6 Ma Dio, che consola gli afflitti, ci consolò con l'arrivo di Tito; 7 e non soltanto con il suo arrivo, ma anche con la consolazione da lui ricevuta in mezzo a voi. Egli ci ha raccontato il vostro vivo desiderio di vedermi, il vostro pianto, la vostra premura per me; così mi sono più che mai rallegrato.
8 Anche se vi ho rattristati con la mia lettera, non me ne rincresce; e se pure ne ho provato rincrescimento (poiché vedo che quella lettera, quantunque per breve tempo, vi ha rattristati), 9 ora mi rallegro, non perché siete stati rattristati, ma perché questa tristezza vi ha portati al ravvedimento; poiché siete stati rattristati secondo Dio, in modo che non aveste a ricevere alcun danno da noi. 10 Perché la tristezza secondo Dio produce un ravvedimento che porta alla salvezza, del quale non c'è mai da pentirsi; ma la tristezza del mondo produce la morte.

Non possiamo attardarci sulla situazione di Corinto ma soltanto cercare di comprendere questa distinzione che l’apostolo fa fra tristezza secondo Dio e tristezza secondo il mondo.
La tristezza secondo Dio, dice, porta al ravvedimento e alla salvezza. La tristezza del mondo produce la morte.
Questo perché la tristezza secondo Dio è potremmo dire tristezza davanti a Dio, è tristezza che non nasconde ma si assume le proprie responsabilità e se questo lo si fa davanti a Dio che solo è Grazia e perdono, è una tristezza che può trasformarsi nella gioia del ravvedimento, del perdono offerto e ricevuto, nell’accoglimento di chi ha sbagliato nella comunità con un nuovo spirito e il desiderio serio di non reiterare il proprio comportamento  offensivo, sbagliato (vedi II Cor 2, 6-8).
La tristezza secondo Dio conduce a vita rinnovata, a relazioni ricostruite e più forti di prima.

La tristezza secondo il mondo può essere varie cose. Una è l’ostinazione a tenere il punto e non volontà di conoscere il proprio errore. La persona continua a portare la propria maschera, a giustificare il proprio comportamento, a sentirsi incompresa e per questo triste, sola, depressa, chiusa.
Ma c’è anche un’altra tristezza secondo il mondo, ed è quella del senso di colpa profondo, pesantissimo, senza appelli e senza sbocchi che porta a credere che il perdono non sia più  possibile, che le proprie azioni siano irreparabili.  In questo secondo caso la persona si sente sola e non crede che nessuno, neppure Dio – in cui non crede -  possa perdonarlo. Pensa che la sua colpa sia anche il proprio destino. Ecco che questo peso può condurre alla morte, psicologica, spirituale, a volte anche fisica.

Quello che Paolo vide accadere a Corinto fu una tristezza benefica sprigionata da una riprensione severa ma salutare. Se si comprende che ci si è comportati male, la fede nel Signore crocifisso e risorto ci viene incontro perché non c’è una colpa tanto grande che Cristo non abbia portato su quella croce per noi.

Se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa
(I Giov 3, 20)