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100 grosse ghiande

ISAIA 5
1 Io voglio cantare per il mio amico il cantico del mio amico per la sua vigna.
Il mio amico aveva una vigna
sopra una fertile collina.
2 La dissodò, ne tolse via le pietre, vi piantò delle viti scelte,
vi costruì in mezzo una torre,
e vi scavò uno strettoio per pigiare l'uva.
Egli si aspettava che facesse uva,
invece fece uva selvatica.
3 Ora, abitanti di Gerusalemme e voi, uomini di Giuda,
giudicate fra me e la mia vigna!
4 Che cosa si sarebbe potuto fare alla mia vigna
più di quanto ho fatto per essa?
Perché, mentre mi aspettavo che facesse uva,
ha fatto uva selvatica?
5 Ebbene, ora vi farò conoscere
ciò che sto per fare alla mia vigna:
le toglierò la siepe e vi pascoleranno le bestie;
abbatterò il suo muro di cinta e sarà calpestata.
6 Ne farò un deserto; non sarà più né potata né zappata,
vi cresceranno i rovi e le spine;
darò ordine alle nuvole
che non vi lascino cadere pioggia.
7 Infatti la vigna del SIGNORE degli eserciti è la casa d'Israele,
e gli uomini di Giuda sono la sua piantagione prediletta;
egli si aspettava rettitudine, ed ecco spargimento di sangue;
giustizia, ed ecco grida d'angoscia!

100 grosse ghiande

Questa è la storia di un uomo, Elzéard Bouffier, il quale dopo aver perso la moglie e l'unico figlio, decide di ritirarsi sulle alpi che sconfinano nel territorio della Provenza, dunque in alta montagna, a vivere una vita essenziale, facendo il pastore di pecore. Egli vive in quei territori a cavallo degli anni della Prima e  della Seconda guerra mondiale, e stranamente, non sembra accorgersi di nulla.
Qui viene incontrato da un esploratore, che è il narrante di questa storia. Questi si era perso tra le montagne e, stremato, era in balia dei suoi bisogni fondamentali: trovare un tetto dove ripararsi dal vento e dal freddo, trovare una minestra calda da mettere nello stomaco, ma soprattutto trovare acqua da bere.
Ed è qui, in questo territorio desolato, con pochi arbusti e tagliato da un vento che riecheggiava nelle carcasse delle casupole diroccate e vuote, che il nostro esploratore incontra Elzéard.
L'incontro è narrato con grande delicatezza, ma anche con sobrietà di parole. L'esploratore riceve acqua, ricovero dentro la sua casa poverissima, ma dignitosa nella sua pulizia, e qualcosa da mangiare.
La conversazione è fatta di poche parole e di lunghe pause silenziose.
L'esploratore viene soprattutto colpito da alcuni gesti incomprensibili di Elzeard.
Elzéard è intento a scartare delle ghiande che tira fuori da un sacco. E con cura meticolosa, mette da parte soltanto quelle che, passate al vaglio di una attenta osservazione, erano le più grandi e non presentavano screpolatura. Ne fa mucchietti da dieci, fino ad arrivare a cento.
Il mattino dopo, il nostro esploratore, chiede e ottiene il permesso di fermarsi ancora un pò. Esce al pascolo insieme al nostro pacifico e stravagante personaggio e scopre che egli, munito di un bastone di ferro, lasciato il gregge alla sorveglianza del cane, si allontana dal sentiero e, di tanto in tanto, praticando con quel bastone dei fori nel terreno, vi infila una ghianda che poi ricopre di terra.
Insomma quel pastore è anche un piantatore di querce. Anzi questa sembra essere la vera  missione della sua vita. Ogni giorno cento querce. Elzéard teneva una contabilità precisa, conteggiando anche le inevitabili perdite che sarebbero sopravvenute a causa degli animali roditori o di altri eventi avversi che ne avrebbero fatto seccare inevitabilmente una parte.
E piano piano, il nostro esploratore scopre che questo pastore, col tempo si era dedicato a piantumare anche altri alberi che gli sembrava potessero prosperare in quel terreno ora più umido, ora più secco.
La breve storia si chiude con la descrizione di quel territorio di alta montagna, che per una serie di circostanze era passato indenne ai disastri della due guerre mondiali, e che risulta profodamente mutato nel suo ecosistema. Dopo il 1945, esso appariva rigoglioso di verde, con la presenza di piccole sorgenti e cominciava ad essere anche popolato da famiglie e case ben costruite.
Elzéard aveva fatto tutto questo ignorando perfino chi fosse proprietario di quel territorio, e disinteressato ad averne il benché minimo tornaconto.
E' una storia stravagante questa. Ma che offre delle indubbie suggestioni ambientaliste. Nel comportamento di quest'uomo, perfino nella sua ostinazione a perseverare, la risposta ad una vocazione, che è anche una elaborazione di un lutto (la perdita di moglie e figlio). Elzéard aveva messo mani alle sue rovine interiori, e senza un apparente movente, si era posto al servizio della vita, in vista di un domani che non sarebbe stato il suo e che non era affatto garantito. Egli infatti avrebbe potuto vedere solamente le piante ancora giovani se non fosse anche intervenuto qualche evento esteriore a sconbussolare del tutto il suo piano.
Trovo che questa brevissima storia scritta da Jean Giono "L'uomo che piantava gli alberi", si offra alla nostra attenzione per descrivere il senso di una vocazione che, a causa delle urgenza della crisi climatica, viene oggi rivolta non più ad un sol uomo, ma ad una intera generazione.
Ci vuole una umanità come quella di Elzéard, che sia pronta, con uno stile di vita profondamente trasformato e alla riscoperta di ciò che è essenziale, determinata a trasformare il deserto in un giardino.
Una antica storia araba racconta della creazione dell'essere umano da parte di Dio. Allah quale ne aveva già fatto i corpi, bellissi e armoniosi, ma ancora privi di anima. Resosi conto della necessità, egli impasta raggi di sole, chiarore delle stelle e profumo dei fiori, e comincia a dare a ciascun corpo, un'anima.
Quel giorno pioveva, ed il lavoro era tanto. Sarà forse stato a causa di una eccessiva umidità a cui alcune di queste anime furono esposte, che accadde qualcuno di questi umani cominciò a dire qualche piccola bugia. Allah, Dio, naturalmente se ne accorse. Allora si rivolse agli esseri umani appena creati e disse che così non andava bene. Non bisognava assolutamente mentire. E poi aggiunse che per ogni bugia, avrebbe scagliato sulla terra un granello di sabbia. "Che vuoi che sia un granello di sabbia", dissero tra loro gli uomini. Tanto e tale era il verde di quel giardino di sorgenti di acqua. Forse fu per questo che allegramente continuarono a mentirsi l'un l'altro. E fu così che a distanza di secoli si formò il deserto. Il luogo in cui non c'è più acqua né vegetazione.
Ho trovato questa storia bellissima e decisamente simile a quella che abbiamo letto della vigna del Signore.
Il paesaggio interiore dell'uomo finisce, inesorabilmente, per produrre anche il paesaggio esteriore. Il dilagare della menzogna, o se volete dell'egoismo e del beneficio dei pochi, desertifica la terra, la rende inospitale e il mondo intero rischia di diventare inabitabile per gli umani.
Trasformerei in questo modo uno slogan che ho letto alla manifestazione del friday for future: "Senza giustizia la difesa del Creato diviene semplice giardinaggio".
Dio ha piantato una vigna, dice il profeta. Ma non  si è limitato a questo. Egli ha fatto tutto il necessario per selezionare le viti e perchè   esse fossero piantate su terreno fertile, riparato dagli animali selvatici. Aveva perfino predisposto lo strettoio per la vendemmia,  anticipando il necessario per arrivare alla gioia del vino.
Ma ecco, che contro ogni premura e ogni previsione, la vigna produsse soltanto uva selvatica.
Che disastro! Che scempio! Che oltraggio verso Colui che aveva tanto faticato.
La storia, è vero, fu raccontata dal profeta per denunciare il comportamento del popolo di Dio, disobbediente e corrotto. Israele era la vigna.
Ma, questo è quel che conta, bisogna notare la profonda corrispondenza tra paesaggio interiore ed esteriore, tra giustizia e rigogliosità e fecondità della vigna.
Vorrei tornare di nuovo un attimo indietro a Elzèard Bouffier e a noi stessi.
Mi chiedo se il personaggio di queste racconto, non porti dei caratteri anche molto moderni.
Partiamo dalle nostre rovine interiori. Chi non ne ha? E se non si tratta di drammi e perdite personali, non si può anche trattare di uno spirito di decadenza, di una perdita di capacità di sperare e di darsi un progetto che vada un po' oltre i nostri giorni?
La disperazione dell'umanità contemporanea soprattutto in occidente, mi pare sia intrecciata molto all'idea che la vita sia tutta qui, e che tutto ciò a cui rinunciamo sia perduto per sempre. Per cui non resterebbe altro che un attitudine bulimica, per cercare di fagocitare ogni cosa, prima che arrivi l'ultimo respiro. Un certo consumismo compulsivo, e certi fatti di cronaca che testimoniano di una violenza sproporzionata messa in atto per ottenere qualcosa che si vuole subito, sono solo alcuni dei segnali di uno smarrimento dell'anima.
Ci sono molte rovine interiori. Il paesaggio dell'anima è brullo e il vento sibila nelle carcasse vuote di ciò che furono i valori e la fede di un tempo. Esagero?
La sfida che ci viene lanciata dalle giovani generazioni è in una domanda che sta sotto traccia: Cosa vogliamo farne delle nostre rovine interiori?
Certo sia la storia islamica, che quella del profeta Isaia, sembrano adombrare l'azione punitiva di Dio rispetto alla ribellione umana.
Noi oggi siamo più propensi a riconoscere nei pericoli della crisi climatica le conseguenze di un agire irresponsabile da parte dell'intera umanità. Chi semina vento, raccoglie tempesta. Se continueremo a stressare e oltraggiare la Terra, le conseguenze saranno per tutti negative, ma, come sempre, si manifesteranno per prime contro i più poveri, e le migrazioni non potranno che aumentare anche per ragioni climatiche e ambientali.
In  Matteo 21, 33, la storia della vigna diviene una parabola che soprattutto la chiesa racconta per spiegare l'economia della redenzione. E' nel dono, se preferite, nel sacrificio di un uomo, Cristo Gesù, che si gioca il futuro e quindi la salvezza della vigna.
Se nella economia della creazione del principio l'uomo, inteso come umanità, era apparso il sesto giorno, quando tutto, mare, vegetazione e animali erano già stati creati, nella economia del mondo nuovo, viene "creato" prima l'uomo nuovo, da cui può scaturire il contesto dei nuovi cieli e della nuova terra.
Perciò la storia di Jean Giono, dell'uomo che piantava alberi, può essere letta come messianica, ma anche come compito che viene affidato a ciascuno di noi.
100 ghiande perfette da piantare ogni giorno, perché cambi il paesaggio esteriore, anche se ne potremo vedere solamente gli inizi. Restituirci con atti di premura e cura del creato, il futuro, per fare in modo che le rovine interiori non abbiamo ad essere l'ultimo atto del nostro vivere.
E' per questo che vi propongo questo registro, che ho intitolato delle 100 ghiande.
Lo troverete sul tavolo all'ingresso della chiesa. Chiunque voglia annoti qualcosa sulla sua "ghianda" personale da piantare: un impegno, la decisione di un'azione in difesa dell'ambiente. Sentitevi liberi di scrivere e di riscrivere. Costruiamo in questo registro un diario collettivo di questo sabbatico di tutta la comunità in difesa della terra. Chissà che anche le piccole cose, non possano divenire parte di un patto conclusivo di questo anno che potremmo sottoscrivere insieme, alla fine.
La "ghianda angolare" è l'uomo nuovo, è Cristo. Ma poi ci siamo noi. Ognuno di noi ha ricevuto una vocazione sia individuale che collettiva a lavorare e custodire il giardino che Dio ha affidato all'umanità.