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Giona 2 – Il grande pesce

1 Il SIGNORE fece venire un gran pesce per inghiottire Giona: Giona rimase nel ventre del pesce tre giorni e tre notti.
2 Dal ventre del pesce Giona pregò il SIGNORE, il suo Dio, e disse:
3 «Io ho gridato al SIGNORE, dal fondo della mia angoscia,
ed egli mi ha risposto;
dalla profondità del soggiorno dei morti ho gridato
e tu hai udito la mia voce.
4 Tu mi hai gettato nell'abisso, nel cuore del mare;
la corrente mi ha circondato,
tutte le tue onde e tutti i tuoi flutti mi hanno travolto.
5 Io dicevo: "Sono cacciato lontano dal tuo sguardo!
Come potrei vedere ancora il tuo tempio santo?"
6 Le acque mi hanno sommerso;
l'abisso mi ha inghiottito;
le alghe si sono attorcigliate alla mia testa.
7 Sono sprofondato fino alle radici dei monti;
la terra ha chiuso le sue sbarre su di me per sempre;
ma tu mi hai fatto risalire dalla fossa,
o SIGNORE, mio Dio!
8 Quando la vita veniva meno in me,
io mi sono ricordato del SIGNORE
e la mia preghiera è giunta fino a te,
nel tuo tempio santo.
9 Quelli che onorano gli idoli vani
allontanano da sé la grazia;
10 ma io ti offrirò sacrifici, con canti di lode;
adempirò i voti che ho fatto.
La salvezza viene dal SIGNORE».
11 E il SIGNORE diede ordine al pesce, e il pesce vomitò Giona sulla terraferma.
 

Che Collodi abbia preso spunto dal libro di Giona per questa pagina deliziosa del suo Pinocchio è più che certo. E non è il solo ad averlo fatto. D’altra parte la metafora dell’essere inghiottiti da un grosso pesce o quella simile di essere divorati da un animale feroce (come Cappuccetto rosso) è frequente nelle fiabe e nei miti. E rappresenta materiale interessante per gli psicoanalisti interessati a scavare nell’inconscio collettivo, nel fondo delle paure che attraversano universalmente gli esseri umani, timori che a volte affiorano nei miti, altre volte nei sogni. La sequenza che abbiamo ascoltato esprime e raccoglie molte paure: la paura alla vista del mostro, la fuga disperata dal pericolo, il terrore di essere inghiottiti, la paura di morire, l’esperienza del buio pesto, del disorientamento, del profondo silenzio, il pericolo di lascarsi andare alla totale mancanza di speranza.
In Pinocchio se pur con il linguaggio giocoso e ironico che gli è proprio, Collodi descrive tutto questo ma anche utilizza questo strano ed estremo set per fare incontrare il padre e il figlio che si erano perduti. Pinocchio infatti in fondo alla spaventosa caverna vivente intravvede una piccola luce e trova Geppetto. Il padre era finito lì perché cercava il figlio e il figlio era da tempo in cerca del padre e di se stesso, e lo spaventoso pesce diventa dunque il luogo del loro impossibile appuntamento.
Sappiamo come si conclude poi la scena, Pinocchio non si rassegna, si ingegna, cerca e trova una via d’uscita, si carica il vecchio padre sulle spalle, novello Enea, e apre una via di speranza anche al tonno un po’ filosofo, un po’ depresso, che poi avrà egli stesso un ruolo salvifico nel prosieguo della storia.

Anche qui nel libro di Giona il pesce inghiotte il profesa-non-profet e le sue sensazioni, il suo sgomento, le sue paure e la sua sofferenza sono narrate con il linguaggio della poesia. Questo capitolo del libro di Giona è infatti costituito da un bellissimo salmo incastonato nella storia del recalcitrante profeta. Il fatto che si tratta di un salmo si capisce per il linguaggio che è diverso dal resto del libro ed è molto simile a tanti altri salmi contenuti nella Bibbia. Possiamo trovare espressioni simili disseminate in molti salmi. Per esempio il Salmo 30 somiglia molto a questo salmo. Si apre con una introduzione riassuntiva da parte del salmista, poi descrive la situazione di grande ambascia, la preghiera accorata, la risposta misericordiosa del Signore “Tu hai mutato il mio dolore in danza” (v.11), la promessa della celebrazione per sempre delle lodi del Signore.
Nel libro di Giona sono riportate 4 discese: da casa sua a Iafo, da Iafo alla nave, dalla nave al fondo della nave, dal fondo della nave al fondo del mare. E tutto questo per sfuggire a Dio e alla sua chiamata ad andare a Ninive per predicare la conversione.
In questo capitolo è descritta la quarta discesa del profeta: dalla nave al fondo del mare.
E nel fondo del mare il confine estremo: le profondità del soggiorno dei morti (v. 3).
Eppure nella stessa preghiera che descrive il soffocamento, la consapevolezza della propria situazione disperata inizia anche  la risalita che è una risalita ancora in speranza ma con il linguaggio della certezza. Questo colpisce, il fatto che quando finalmente la bocca di Giona si apre alla preghiera il grido dal fondo dell’angoscia, che proviene anche dalla consapevolezza della colpa, si trasforma all’improvviso in lode e ringraziamento senza che apparentemente nulla sia mutato. Giona prega e mentre prega e dice: “Sono cacciato lontano dal tuo sguardo! Come potrei vedere il tuo tempio santo?” (v. 5), poi però dice poco dopo: “Quando la vita veniva meno in me, io mi sono ricordato del SIGNORE e la mia preghiera è giunta fino a te, nel tuo tempio santo” (v. 8).
Questa è la preghiera: quando ci ricordiamo del SIGNORE dal fondo dell’abisso!  (Inno 180 “Dal fondo del cuor mio”)

La lontananza e il divario che ci divide da Dio, dal suo tempio santo, si fa vicinanza e accessibilità. E’ la Grazia! Questo vuol dire cercare e trovare il volto del Signore che si china benevolo verso di noi quando noi cerchiamo nel nostro povero vocabolario e farfugliamo delle parole per dire la nostra miseria e il nostro bisogno di Lui. Erri De Luca che traduce il testo del libro di Giona fa notare come la frase che dice in italiano “Tu hai fatto salire la mia vita dalla fossa” (v. 7) suona in ebraico come uno spalancamento della bocca in una ricerca di fiato “Vattàal mishàhat haiài” come il ritorno impetuoso di aria nei polmoni di qualcuno che sta per morire asfissiato.
Dunque Giona è ancora nel ventre del pesce, è ancora nella profondità dei mari ma loda Dio e celebra la sua liberazione. Il fatto che lo scrittore di questo libro sceglie di usare il linguaggio poetico dei salmi per esprimere la profonda esperienza di conversione di Giona significa che l’esperienza di Giona ha il carattere dell’universalità: Giona siamo noi! E l’autore tradisce questa intenzione quando si rivolge direttamente a noi dicendo: “La salvezza viene dal SIGNORE”. (v. 10)

Il grosso pesce può essere metafora di tante cose per ciascuno di noi. In primo luogo è l’abisso di situazioni penose nelle quali ci siamo cacciati da soli per fuggire dalla chiamata di Dio, dalle nostre responsabilità. Come avvenne a Giona che per un tempo dimenticò Dio, volle dimenticarlo. Lui aveva ricevuto una chiamata molto specifica, insolita e anche pericolosa. Ninive era chiamata la città sanguinaria (Nahum 3,1 lett. La città dei sangui: “Guai alla città sanguinaria piena di menzogna e di violenza che non cessa di depredare!”). Ninive era la capitale dell’Assiria e l’Assiria era il grande impero che si estendeva per mille chilometri dal Tigri al Nilo. L’Assiria era come l’Egitto, la terra della deportazione e della nuova schiavitù. Chiedere a un solo individuo di andare a predicare la conversione a Ninive  era come chiedere ad un ebreo di andare a predicare la fratellanza alla Germania nazista! E infatti Giona non aveva risposto niente ma si era imbarcato su una nave per salpare verso la direzione opposta. Ed era sceso, sceso, sceso, sceso… fino alla soglia del soggiorno dei morti.
Noi fuggiamo dalla nostra vocazione per molto meno! Sappiamo che siamo chiamati a testimoniare amore, solidarietà con i più deboli, giustizia… sappiamo che l’amore di Cristo va testimoniato a tutti ma non lo facciamo e fuggiamo via. E la nostra anche è una discesa, nella dimenticanza di Dio, della comunità, delle responsabilità battesimali.
Oppure il ventre oscuro del pesce può essere stato da noi sperimentato in altri modi. Come l’abisso di sconforto che abbiamo provato per una malattia che ci ha colto all’improvviso nostra o di una persona a noi cara o per una situazione di disorientamento e solitudine estrema in cui ci siamo sentiti affondare senza neppure capire fino in fondo di chi era la colpa e perché avveniva proprio a noi. Forse ci sentiamo così proprio in questa fase della nostra vita. Io non lo so, Dio lo sa. 
Ma il libro di Giona è Vangelo, buona notizia, perché ci dice che perfino se le alghe si sono attorcigliate al nostro collo, e siamo scesi alle radici dei monti nelle profondità del mare, ai confini del regno dei morti è possibile ritrovare Dio. Perché se noi ci eravamo voluti dimenticare di Lui, Lui non ha mai dimenticato noi. E ci cerca. E la sua luce illumina piano l’oscurità mentre nel silenzio udiamo la nostra stessa voce che balbetta una preghiera e si affida ad orecchie pazienti che non hanno mai cessato di ascoltarci.
Il pesce non è per Giona una tomba, il pesce è lo strumento scelto da Dio per salvarlo. Quel buio non è il buio di una tomba, è il buio di un ventre che sta per partorirci a nuova vita.

“E il SIGNORE diede ordine al pesce e il pesce vomitò Giona sulla terraferma” (v. 11)
Il vomito di un pesce non è proprio un’immagine gloriosa per il profeta, ma tant’è. Certamente Giona fu un boccone indigesto. De Luca scrive: “Sappiamo che Giona non ha pronunciato una frase di Iod (Dio) trattenendola in sé, nelle sue viscere. Allora altre viscere intervengono a trattenere chi ha osato inghiottire la profezia. Prigione per prigione, ventre per ventre (...) Dalla bocca del pesce emerge il profeta che ha accettato di far uscire dalle sue labbra la frase sacra, che è rimasta come lui, intatta, indigesta. Dovrà essere vomitata all’asciutto degli uomini, tra la gente straniera di una città remota”.

Anche per noi la cavità oscura dove ci siamo cacciati e dalla quale abbiamo gridato verso il cielo si apre e noi siamo restituiti ad una nuova vita, sulla spiaggia del mondo. Dal libro di Giona sappiamo che noi, come lui, non siamo soltanto dei naufraghi della vita salvi per miracolo, siamo piuttosto anche noi dei messaggeri ritornati a vivere perché anche altri ritrovino la vita. Questa è la sfida che Giona è ormai pronto a raccogliere. E noi?