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“Il mio nome è Legione perché siamo molti”

Testo: Marco 5, 1-20

Il Vangelo di Marco ed anche Luca e Matteo in forma abbreviata, descrive l’incontro fra Gesù e un uomo che il testo definisce come “posseduto da uno spirito immondo”.

Come è risaputo  a quei tempi la malattia mentale nella varie manifestazioni, ivi compresa l’epilessia come i disturbi psicotici e la schizofrenia, era attribuita all’appropriazione della persona da parte di oscuri spiriti nemici. L’episodio tratteggia la disperazione di quest’uomo con poche drammatiche pennellate. L’uomo viveva fra i sepolcri, e non più fra i vivi, di lui si dice che “nessuno poteva più tenerlo legato neppure con una catena. Perché spesso era stato legato con ceppi e catene ma le catene erano state da lui rotte e i ceppi spezzati, e nessuno aveva la forza di domarlo” (5,2-4) E si aggiunge “Di continuo notte e giorno, andava fra i sepolcri e su per i monti, urlando e percotendosi con delle pietre”. La sofferenza è immane, la solitudine estrema, la notte fredda dell’esclusione incombe come un destino ineluttabile su una vita asservita a forze distruttive.

Quello che Gesù fece incontrando l’uomo fu restituirgli la parola e, attraverso il dialogo e la semplice domanda: Come ti chiami? cercare il bandolo di una dignità sotterrata e di un’identità frammentata in una legione di pezzi, appunto -  da cui iniziare la risalita dall’abisso. Risalita che il Vangelo racconta e che ci fu se è vero che il testo culmina con la visione dell’uomo che “aveva avuto la legione” che sedeva accanto a Gesù vestito e sano di mente.
Il racconto ha tuttavia un epilogo inatteso. La liberazione dell’uomo dagli spiriti distruttivi creò sconcerto, diffidenza, paura fra la gente del luogo tanto che l’intero paese pregò Gesù di andarsene dai loro confini.
Ma andiamo per ordine: vi offro alcune annotazioni e poi un altro breve testo a completare la riflessione.
 
Il linguaggio antico illustra a tinte vivaci l’atteggiamento che la società dei “sani” ha spesso nei confronti di chi vive un’irriducibile diversità. La società respinge infatti quasi sempre comportamenti che non si conformano alle regole sociali e allontana da sé “fuori del paese” le persone che presentano stranezze, che magari non nascondono il proprio dolore ma lo esternano, che esprimono le loro emozioni senza riuscire a controllarle.
Nel racconto l’uomo dopo aver sopportato ripetuti tentativi di contenimento violento (con catene e ceppi!)  fu spinto a vivere fra le tombe, a vagare fra i monti in solitudine. Perché? Perché di persone così la società ha paura. Ma di cosa ha paura? Ha paura dell’altro nel suo mistero, nella sua irriducibile diversità? Forse. Ma se invece fosse vero l’opposto? Se fosse paura dell’altro per la sua irriducibile somiglianza alla società dei cosiddetti sani? Non è vero che nell’altro si specchia anche il nostro disagio? Che vedo nell’altra l’espressione scomposta del mio dolore, dei miei fantasmi, delle mie paure, delle mie emozioni? Non è forse vero che si specchia in loro l’umanità nuda e precaria che noi siamo stati abituati sin da piccoli a coprire, si specchia in loro il grido della nostra stessa solitudine, nei grovigli a volte indistinti del loro linguaggio si specchiano anche i nostri pensieri contorti e incompleti, nel grido dei loro bisogni primari, si specchiano i nostri simili bisogni primari, fra i quali il primo è quello di essere accolti e amati nel nostro disordine, nella nostra incompletezza, nei nostri dubbi, nella nostra fragilità. Così come siamo.
Il grido dell’altro può inquietarci perché richiama il nostro grido inespresso, tenuto dentro per vergogna, per paura, per sfiducia, per abitudine. Per non disturbare. L’altro ci fa paura perché è tanto simile al noi che celiamo sotto il mantello della rispettabilità, della nostra affidabilità. Fin quando… fin quando a volte il castello frana e le nostre miserie sono esposte come un palazzo sventrato dal terremoto, a nostra vergogna. E tutti fanno finta di meravigliarsi.

Ma fino a quel momento che speriamo non venga mai, prendiamo le distanze.
Nell’altro c’è il demone, anzi i demoni, dice il testo antico, una legione di demoni. I demoni e i loro ospitanti vanno spinti fuori casa, fuori dall’abitato. Lo spingere i demoni fuori è  un modo per illudere noi stessi che i demoni sono fuori, non ci abitano, non sono più fra noi, in noi.

L’antico testo aveva ancora una visione di spazi aperti. L’uomo vagava per le tombe, spinto a vivere la sua non-più-vita fra i morti, ma occupava anche i monti liberando grida altissime nella sua sofferenza. Non solo l’uomo, ma il mondo esterno era quindi concepito come occupato da oscure presenze vaganti e inafferrabili. Non a caso quando gli spiriti al comando del Cristo escono dall’uomo, entrano in un branco immenso di porci e concludono la loro corsa precipitosa nel mare, uccidendo i maiali. I demoni uccidono anche quando sono vinti, sono vinti ma non distrutti. Continuano a vagare ancora in cerca di altri luoghi, altre vite, altre comunità da abitare. E fanno paura. Il simbolismo è fortissimo! 

Il film “The village” di M. Night Shyamalan è un’espressione potentissima di come  la religione è stata spesso custode fino all’irragionevole, fino al crimine, di questa ancestrale percezione del mondo esterno  come luogo infestato da demoni e nemici di Dio in contrasto con la cittadella fortificata e protetta dei giusti, dei devoti e dei sani. Colonna portante di questa costruzione è stata ed è ancora la paura. Questa visione di un mondo esterno, altro, sconosciuto, sinistro e pericoloso in contrasto con la fortezza assediata e abitata da simili, addomesticata e protetta non è mai tramontata, anzi è sponsorizzata oggi più che mai. La paura la fa da padrona dentro e fuori di noi, dentro e fuori le nostre chiese, nelle nostre società.

E’ proprio qui che affonda profondissima la radice oscura e profonda dell’istituzionalizzazione. Sospingo fuori i demoni che abitano “gli altri”, quelli che non sono dei “nostri”, li mando fuori e poi diligentemente, scientificamente vi costruisco muri tutto intorno per contenerne l’energia, la forza, l’imprevedibilità, per non vedermici specchiata, per considerare irriducibile la loro alterità, per attutirne le grida di dolore e non sentirle, per liberarmi del fastidio che mi provocano, del pericolo di contaminazione. Così mi approprio della loro vita, sospendo i loro diritti e limito la loro libertà, poi li costringo fin quando posso con “ceppi e catene” non molto diversi dai ceppi e dalle catene dei tempi antichi e libero così la società e me stessa da queste presenze ingombranti e inquietanti. Ricordate i manicomi? E anche oggi ogni tanto viene scoperta qualche istituzione dove queste cose accadono ancora. Possono essere case di cura o istituti per anziani, a volte perfino asili e scuole d’infanzia.
Il muro intorno a loro mi aiuta a dimenticarmi di loro finché sto dall’altra parte. Quando vedo quel muro mi sento al sicuro, sospiro e tiro dritto. I demoni stanno dall’altra parte. Per questo le istituzioni totali hanno gli anticorpi alla loro stessa riforma. Perché sono tanto utili a quelli che stanno fuori per alimentare le loro illusioni.

Come pastora nel mio ormai lungo ministero il disagio dalle mille facce e dai mille nomi  l’ho incontrato molte volte al di qua e al di là dei muri, anche perché le chiese sono sempre state, sono, e devono essere, luoghi dove si cerca compagnia, aiuto, calore umano. 
Si cerca e a volte si trova, si cerca e a volte non si trova.

Quando si trova accoglienza, un po’ di riposo e un po’ di speranza, la chiesa è comunità vivente che non respinge, che non si difende, o non si difende troppo chiudendo le sue porte, che affronta i demoni negli altri e in se stessa, riconoscendoli, demitizzandoli, chiamandoli per nome, riconoscendone la familiarità. Perché i demoni che bloccano, limitano gli orizzonti, allontanano dagli altri e rendono a volte la vita un inferno li conosciamo e possiamo nominarli perché non  stanno solo fuori, spesso stanno anche dentro di noi. Sono legione, hanno mille nomi. Si nascondono dietro paraventi di vario genere, è vero, ma si possono smascherare. Sono l’ipocrisia, il desiderio di sopraffazione e di rivalsa, la paura di perdere quello che abbiamo, la incapacità di sperare che qualcosa possa davvero cambiare e sono banalmente gli egoismi di ogni natura. Dunque accogliere l’altro con i suoi demoni è possibile solo in quanto ci riconosciamo simili. E’ solo questa consapevolezza che può avvicinarci agli altri senza assecondare l’istinto di autodifesa dei nostri confini.

Ma a volte delle nostre comunità di fede resta solo il guscio istituzionale e in questo caso le porte che apparentemente sono sempre aperte, nella realtà restano blindate. In questi casi siamo più simili a piccole fortezze respingenti e asfittiche, autoreferenziali e impaurite, che parlano un linguaggio che nessuno più capisce, incapaci di incontrare l’altro dove l’altro si trova, di riconoscerne il percorso unico e il cuore pulsante nascosto da una corteccia ruvida, di vedere che l’altro è il mio alter ego, il prossimo più prossimo, è l’altro me dal quale non devo allontanarmi, verso il quale non devo provare fastidio. L’altro la cui sofferenza, le cui angosciose domande mi riguardano perché sono le mie stesse domande a cui non sono riuscito a trovare risposta.  Ed è la tragedia della chiesa istituzione dagli impenetrabili confini, settaria e fallimentare rispetto alla propria stessa vocazione, lontana anni luce da Cristo Gesù,  più simile ai suoi storici nemici.

E a questo punto vengo ad un altro testo evangelico, sempre in Marco, che contiene un episodio avvenuto qualche giorno prima della guarigione dell’indemoniato di Gerasa e che ne rappresenta una premessa imbarazzante. Da Marco  3, 20-22:

20 Poi (Gesù) entrò in una casa e la folla si radunò di nuovo, così che egli e i suoi non potevano neppure mangiare.
21 I suoi parenti, udito ciò, vennero per prenderlo, perché dicevano: «È fuori di sé».
22 Gli scribi, che erano scesi da Gerusalemme, dicevano: «Egli ha Belzebù, e scaccia i demòni con l'aiuto del principe dei demòni». (…)

E’ un testo importante perché in questo testo c’è una consonanza inattesa fra la famiglia di Gesù che lo cerca per portarselo via, forse per proteggerlo, dicendo: “E’ fuori di sé” e gli oppositori di Gesù venuti da Gerusalemme che lo accusavano dicendo “Ha un demonio e scaccia i demoni con l’aiuto del principe dei demoni”. Una consonanza inattesa sulla diagnosi: Gesù è fuori! E’ malato di mente, è esaltato, è indemoniato e manovrato nel suo operare da Satana in persona.

Sono le due più importanti e antiche istituzioni umane, la famiglia e la religione che fanno valere i loro steccati e respingono fuori Gesù considerandolo irriducibile, incomprensibile, pericoloso. Fuori. Ma perché mai? La famiglia può a volte essere molto severa con suoi componenti che non rispettano le regole, non si adeguano alle aspettative. Nel caso di Gesù, lui se ne era andato, aveva lasciato il suo lavoro di falegname, il suo ruolo di sostegno di famiglia come primogenito, aveva fatto scelte imprevedibili e spiazzanti e si era messo nei guai: E’ fuori di sé!

Quanto una famiglia possa a volte essere spietata con alcuni dei suoi membri lo sappiamo molto bene. Quante volte abbiamo sentito che persone si sono sentite dire: “Da oggi non hai più un padre!” o una madre, o un fratello. La famiglia, il cerchio stretto,  alza muri altissimi, impenetrabili, a volte per sempre ed esclude. Le ragioni possono essere tante, ma generalmente per la trasgressione delle aspettative, delle regole, dei modelli e dei ruoli di cui la famiglia si ritiene portatrice.
Dunque un figlio viene allontanato perché gay, o una figlia per le sue scelte di vita non condivise. Oggi avviene più di rado ma ancora avviene. Mentre parlo, ho in mente i cocci di vite distrutte per il respingimento che si è vissuto nelle famiglie di appartenenza, cocci difficilissimi da rimettere insieme.    

E a volte le chiese non sono da meno, anzi! Anche le chiese hanno le loro regole e quando le regole sono considerate più importanti delle persone, può accadere che le persone siano spinte fuori. Si attiva il processo della collettiva demonizzazione e rimozione dell’altro: è fuori di sé, ha il demonio che lo guida, attenzione, pericolo. Salviamo la chiesa dal contagio!

Certo quella volta Gesù si difese e anche bene ma non servì poi a molto. Sappiamo qualche tempo dopo come andò a finire. Fu ucciso, ci ricordano i Vangeli, fuori della porta della città santa!
Ma quella volta lì si era difeso e aveva detto che non era possibile che lui agisse con l’aiuto del demonio, che quell’accusa era un controsenso se era vero, come era vero, che lui liberava la gente dai suoi lacci, dalle sue sofferenze, dalla sua solitudine.

Svelò la contraddizione delle accuse dei religiosi che erano furiosi per il fatto che Gesù agisse fuori dai confini delle loro istituzioni, delle loro regole. Gesù richiamava all’essenza: se un’azione è volta a liberare una persona dalle sue schiavitù, dal suo dolore fisico e spirituale, tu istituzione devi riconoscere l’evidenza e ringraziare Dio. Se stigmatizzi, respingi e accusi sei tu che hai un problema! Era così allora ed è così oggi. Se agiamo così, siamo noi che abbiamo un problema.

Invece rispetto alla sua famiglia, in quel momento escludente, anche se a suo modo protettiva, ecco cosa avvenne:

32 Una folla gli stava seduta intorno, quando gli fu detto: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle là fuori che ti cercano». 33 Egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?» 34 Girando lo sguardo su coloro che gli sedevano intorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! 35 Chiunque avrà fatto la volontà di Dio, mi è fratello, sorella e madre». (Marco 3, 32-33).

La famiglia aveva detto che Gesù era “fuori”, ma sono loro che restano fuori e mandano a chiamare Gesù, mentre Gesù aveva creato un luogo diverso dove tutti potessero essere dentro. Lui disse che sua madre e i suoi fratelli erano coloro che cercavano ma soprattutto facevano la volontà di Dio, insieme a Gesù. Nuove madri, nuove sorelle, nuovi fratelli. Anche fuori dell’istituzione religiosa, fuori dell’istituzione famiglia. Insieme.

Dunque, ritornando al nostro testo iniziale, quando Gesù incontrò l’uomo con la legione che vagava urlando fra le tombe la sua sofferenza, la sua solitudine, Gesù sapeva davvero per esperienza cosa significasse essere considerato “fuori”, posseduto dal demonio, pericolo vivente per famiglia, religione e società. Gesù non ne ebbe timore, non si allontanò quando l’uomo lo avvicinò urlando ma semplicemente gli parlò. Quanto tempo era che qualcuno non rivolgeva più la parola all’uomo delle tombe, che non gli chiedesse il nome? Quello fu l’inizio della sua guarigione.

Oggi spesso si parla sopra, si parla di, si parla pro, si parla contro, si urla molto anche per scritto, con la parola si respinge, con la parola si tranciano giudizi, dietro le parole ci si nasconde, con le parole si distrugge chi può rappresentare un ostacolo, c’è il linguaggio dell’odio, c’è chi si è inventato il mestiere di costruire con l’abile uso dei social fake news, notizie false con le quali manipolare il consenso e fare soldi. Insomma con questo formidabile strumento di umanità che ci è stato donato che è il linguaggio si fa davvero di tutto ma a volte non ci si parla.

Questo testo che il Vangelo conserva fresco per noi ci ricorda anche oggi che la guarigione  parte sempre da qui. Dal sedersi, guardarsi negli occhi, dal parlarsi e dal mettersi in ascolto della storia di vita dell’altro e dal raccontare la nostra storia o cucirne insieme qualche suo frammento, e partendo dall’ascolto ci si fa carico delle ferite gli uni delle altre, accettando anche di essere interrotti e  accogliendo il silenzio dell’indicibile.

Costruire attraverso gli sguardi, il contatto e le parole, dei cerchi permeabili di inclusione che curino le solitudini a lungo portate, questa è la missione della chiesa di Gesù Cristo! Non è facile, no non è facile ma ci si può provare. Se la chiesa sa essere questo luogo ed è capace di lasciare aperte porte e finestre, bene, se no si cercheranno nuovi luoghi di incontro. Anche un cimitero può servire – come accadde allora -  da grembo accogliente di una nuova vita.