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Da misericordia a misericordia – Il coraggio degli attraversamenti

Testo: Marco 7, 24-30

Leggendo tutto di un fiato i capitoli dal 6 all’8 del Vangelo di Marco si ha davvero l’impressione che il testo che abbiamo letto ne costituisca uno dei fuochi, una chiave interpretativa, una svolta.
In questi capitoli  Gesù a partire da Nazareth non fa che sconfinare, oltrepassare cioè confini stabiliti dalle tradizioni o dalla geopolitica, attraversa frontiere culturali e religiose, ma anche geografiche e di genere. Man mano che si legge ci si accorge che in queste pagine le distanze si accorciano, ci si approssima.
Uno sguardo alle località che Gesù e i suoi attraversano è molto indicativo. Gennesareth e Betsaida, due sponde opposte di un lago che è di per sé una triplice frontiera. Poi Tiro e Sidone, la Fenicia, poi il territorio al di là del Giordano, la terra delle dieci città, la Decapoli, e poi ancora Cesarea di Filippo nell’Iturea, luogo della domanda cruciale di Gesù ai suoi: chi dite voi che io sia? E lì durante il cammino, il primo svelamento della sofferenza imminente, lo sconfinamento per eccellenza di Gesù, figlio di Dio nell’abisso della morte, ma questa volta avvenuto non nelle estreme  periferie ma nel cuore della capitale, di Gerusalemme, la città di Dio. 

Mentre Marco scriveva il suo Vangelo, verso  il 70 d.C., erano accadute già moltissime cose. La predicazione della buona notizia del Figlio di Dio che si era rivelato come il Cristo morendo sulla croce e risorgendo poi a vita eterna, si era già ampiamente diffusa e, a partire da Gerusalemme e dai territori a maggioranza ebraica, aveva già raggiunto villaggi e città della Siria, dell’Asia Minore e dell’Europa.
Di questa diffusione incredibile della Buona notizia ne dà conto il racconto di Luca nel libro degli Atti. I protagonisti di questa impresa basata sulla convinzione che il Vangelo non poteva restare confinato all’interno del popolo ebraico erano stati molti. Alcuni li conosciamo. Pietro, Paolo, Barnaba, Tito, Timoteo, Sila, Aquila, Priscilla, sono solo alcuni nomi di una moltitudine di credenti, uomini e donne che hanno creduto in un Vangelo che era opportunità di salvezza offerta a tutti e tutte senza distinzione di etnia, appartenenza di genere, nazionalità, lingua, condizione sociale.

Ma da dove era venuta questa convinzione? Questo slancio universalista? Questo entusiasmo contagioso includente, aggregante?
La risposta di Luca negli Atti degli apostoli è: l’azione dello Spirito Santo è  la carica propulsiva che moltiplica le forze, dà autorità alla parola annunciata, guida le vicende umane, offre visione, sfida proibizioni, precede l’incedere umano attraversando frontiere e chiamando alla fede  ogni sorta di persone. Così era avvenuto a Filippo quando si era affiancato al carro del ministro etiope e aveva battezzato un uomo mutilato nella sua mascolinità, includendolo senza altre condizioni che la sua fede, nella comunità messianica. Così era avvenuto a Pietro che, preparato da una visione di animali puri e impuri mescolati insieme, aveva incontrato Cornelio, il centurione romano pagano e aveva imparato che “Dio non ha riguardi personali” e che lo Spirito stesso poteva battezzare dei credenti ex pagani anche prima che fosse loro impartito il battesimo d’acqua.
La risposta di Paolo a quella domanda -  perché l’Evangelo va annunciato a tutti i popoli? –  è che l’allargamento del Vangelo alle genti viene da lontano, dalla promessa fatta ad Abramo, viene dal piano di Dio svelato nel Kairos, nel tempo opportuno e reso operativo in Cristo crocifisso e risorto.
La risposta di Matteo risiede nelle ultime parole che il Gesù risorto pronuncia sul monte in Galilea, il grande mandato, quando il risorto invia i suoi ad andare e fare suoi discepoli tutti i popoli battezzandoli e insegnando loro ad osservare tutte le cose che aveva loro comandate.
Nel Vangelo di Marco la risposta al perché il Vangelo di Gesù Cristo ha portata universale, comincia ad essere formulata proprio in queste pagine e in particolare nell’episodio che abbiamo appena letto che ha per protagonista Gesù e una donna di Tiro. Di lei nessuno si è ricordato di appuntarsi il nome.
Marco ci dice che Gesù era andato in territorio pagano ma non per predicare, né per operare guarigioni ma con l’intenzione di rimanere nascosto. Cos’era? Un ritiro? Una pausa di riflessione, un cercare di fare il punto del suo ministero? Un interrogarsi sul che fare dopo uno scontro aspro con un gruppo di farisei su legge e tradizione? Marco non ce lo dice ma annota che Gesù, come era avvenuto anche altre volte, nonostante ci avesse provato, “non  poté rimanere nascosto”. Lo cercavano e lo trovavano sempre, attirava come una calamita persone bisognose, bisognose di incoraggiamento e consolazione, come era avvenuto dopo l’uccisione di Giovanni Battista (6, 31-34), persone affamate e che lui aveva poi saziato a migliaia (6, 35-44), persone bisognose di cura, di guarigione (es. 6, 54-56).
Anche in territorio pagano si sparge la voce della sua presenza e una donna arriva alla porta della casa dove alloggiava. Di questo episodio abbiamo due versioni, con una piccola eccezione mi soffermerò soltanto sul racconto di Marco. Di questa donna si specifica bene che non era semplicemente un’ebrea che viveva in diaspora ma una pagana sirofenicia. Non ci sono dunque dubbi: la donna non appartiene al popolo di Israele, erede di diritto delle benedizioni di Dio. La donna irrompe nella casa, implora gettandosi a terra l’aiuto di Gesù: aveva una figlia posseduta da un demonio. A quell’epoca tutte le malattie erano considerate come opera diabolica. Era un modo molto concreto di dire che Dio non infliggeva malattie e dolore a nessuno, ma per ragioni mai chiarite delle forze distruttive prendevano possesso di alcuni ambiti umani soggiogando le persone. Dio solo, in questi casi, poteva aver pietà e ristabilire la sua sovranità nella vita delle persone scacciando le forze ostili e restituendo l’integrità del corpo alla persona interessata. La bambina era probabilmente soggetta a gravi crisi epilettiche.
In questo contesto di pensiero situiamo la preghiera della donna e la risposta di Gesù.
Che significato spirituale poteva avere la richiesta di una donna pagana? Se il mondo pagano era un mondo completamento asservito a falsi dèi, cioè ai demoni, che senso aveva chiedere a Gesù di liberare una persona dal demonio? Possiamo così forse comprendere la risposta di Gesù che al nostro orecchio appare dura e carica di disprezzo. Il binomio figli/cani riferito ad esseri umani di cultura e nazionalità diversa, è insopportabile per noi. Cani erano chiamati dagli ebrei i pagani e il fatto che Gesù usi un termine meno carico di connotazioni negative - qualcosa come “cuccioli” – non annulla lo stupore, né l’imbarazzo.
Potrei fermarmi un attimo qui e fare un piccolo excursus su come nel tempo si siano trovate delle giustificazioni per le parole di Gesù. Si è detto per esempio che Gesù usa quella espressione di proposito per mettere alla prova la fede della donna, prova che poi viene superata. Ma la realtà è quella che ascoltiamo. Gesù dà prova di condividere qui la visione del mondo che aveva ereditato essendo ebreo, figlio di ebrei, consapevole sostenitore che, come dice in un altro contesto evangelico, “la salvezza vien dai giudei” e ai giudei evidentemente doveva restare.
Eppure… eppure… un attimo prima – nel testo precedente questo -  egli stesso aveva abolito almeno in principio la distinzione fra cibi puri e impuri e aveva anche contestato la tradizionale applicazione di consuetudini ritenute importanti per la religione dei padri, aveva riportato il sabato ad essere un’istituzione che nell’intenzione originaria salvaguardava l’umanità e non intendeva opprimerla e aveva guarito una donna resa impura per anni innalzandola come esempio di fede, aveva toccato lebbrosi e conversato con un uomo posseduto da legioni di demoni.
Era già accaduto a Gesù dunque di smantellare dei muri ideologici costruiti per dividere il mondo in puri, impuri, in buoni e cattivi, in giusti e ingiusti, eppure restava in lui qualcosa di quella barriera che traspariva da quella sua espressione per noi sconcertante: “Lascia che prima siano saziati i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli per buttarlo ai cagnolini”. C’è un “prima” che deve essere ascoltato e adempiuto. Prima i figli e poi i cuccioli, dice Gesù come prima risposta.
Di questo “prima” Paolo avrebbe parlato molte volte per quanto riguarda l’accesso alla salvezza. Ecco la frase che forse più di altre ha forgiato la storia della Riforma e che contiene questa espressione: “Io non mi vergogno dell’Evangelo – aveva detto – perché esso è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede; del giudeo prima e poi del greco” (Rom 1, 16). E’ un “prima” storico, cioè derivato dalla storia della salvezza. Prima Abramo, Isacco, Giacobbe e la loro discendenza e poi in Cristo, anche tutti gli altri.
Gesù in questo incontro afferma questo “prima”, un “prima” che però associa anche con la diversità fra “figli” e “cagnolini”, distinzione che sembra rimandare e, almeno per il momento, impedire ogni suo intervento per esaudire la donna.
Ma la donna non demorde. Queste distinzioni esistono, è vero, lei non lo nega, e non sembra neppure offesa e arrabbiata dalla risposta di Gesù. Ci era abituata. Gli ebrei chiamavano gente come lei cani e anche loro fenici d’altra parte, e lei lo sapeva bene, avevano una lista di termini offensivi nei riguardi degli ebrei. Apparteneva anche lei a quel mondo lì che è anche il nostro, fatto di schieramenti contrapposti. Era il mondo in cui viveva. Era il modo normale di parlare. Ma a lei non importava: lei aveva una cosa da chiedere che era più importante di tutti i linguaggi, di tutti i disprezzi, di tutti i muri nazionalistici e religiosi. Andava oltre. Più importante di tutto era sua figlia. Che stava male e in quel momento aveva bisogno di lei. Per lei, per amore di lei, accetta l’umiliazione, non indietreggia, insiste. E insiste scegliendo le parole giuste, parole che aprono un varco fra lei e Gesù”.
“Evitando un confronto diretto, senza mettere in discussione il piano di salvezza, la donna sostiene che la salvezza non sia esclusiva ma inclusiva, che Dio non operi in un regime di scarsità ma che, al contrario, compassione, misericordia e amore abbondino per tutti e tutte.” (Elizabeth Green in “Il filo tradito”, Claudiana 2011, p. 59)
E Gesù l’ascolta, la vede, cambia idea. Ora la vede non come un cucciolo bisognoso di mollichine pietose ma come una mamma dignitosa, piena d’amore viscerale per la sua bimba sofferente.
In questo testo vediamo dunque che nell’incarnarsi e nel vivere nel mondo, Gesù, il Figlio di Dio è anche figlio dell’uomo, risente delle limitazioni, e anche, come in questo caso, dei pregiudizi che a volte impediscono e in questo caso avevano impedito di vedere l’altra/o compiutamente nella sua umanità. A parte la possibile intenzione teologica di Marco che sottolinea quel “prima” di cui parlavamo, Gesù aveva subito risposto come un uomo che aveva visto l’altra attraverso il filtro della sua cultura esclusiva ed escludente. In un primo momento anzi non l’aveva vista affatto.
 Ma la capacità e il carattere straordinario di Gesù, e anche di Marco che lo ricorda, è che Gesù si fa interpellare da questa donna, si fa cambiare da lei, accetta la sua sfida a superare quel divario che entrambi avevano ereditato dalla loro cultura. E nell’amore sovrabbondante di Dio, accoglie questa donna nel suo bisogno di mamma, nel suo amore per la figlia che gli fa superare ogni barriera. Gesù infatti a questo punto la innalza. Lei non è più un cucciolo senza importanza alla quale far arrivare gli avanzi, ma nella sua umiltà è portatrice di una parola potente che Gesù riconosce. Gesù infatti le dice: “Per questa parola, va’, il demonio è uscito da tua figlia”. In Matteo dirà ancor più esplicitamente: “Donna, grande è la tua fede; ti sia fatto come vuoi” (15, 28). Grande è la tua fede!
Gesù riconosce la sua fede intrisa d’amore e le annuncia che il demonio fugge davanti all’amore. Gesù è il tramite divino di questa fuga.

Dopo questo episodio Gesù compirà la guarigione di un sordomuto in un altro territorio pagano, quello della Decapoli, senza più nascondersi. E ancora in questa regione compirà una nuova moltiplicazione di pani e pesci con 7 ceste di sovrabbondanza. Sembra che ora Gesù attraversi le frontiere con una più piena e salda consapevolezza che attraverso di lui Dio intenda cancellare le divisioni e rispondere ai bisogni di un popolo grande, formato da donne e uomini, come quella donna che lo aveva cercato mentre si nascondeva a Tiro, un’umanità dolente che spesso non ha nessun altro a cui rivolgersi. Lui se ne prende cura perché Dio lo ha chiamato a questo.  Dio lo ha chiamato a questo anche attraverso quella donna della quale tutti si son dimenticati il nome!

Questa donna è Marianela ma è anche Ivan che da anni combattono soffrendo una loro battaglia perché la loro figlia possa essere curata da una malattia rara che appare inarrestabile.
Questa donna è  Gina che  non si stanca di chiedere aiuto per ottenere un luogo decente dove abitare con i suoi tre bambini da quando il loro padre se ne è andato 10 anni fa.
Questa donna è Nora che da quando è scappata, prima per sfuggire alle botte di sua madre e poi a quelle del suo secondo marito, ha caparbiamente cercato chi l’aiutasse a crescere i suoi bambini dignitosamente e senza violenza.
Quella donna porta il nome di moltissime persone che il mondo disprezza e più spesso ignora ma che non vogliono che il disprezzo e l’indifferenza si trasmetta anche ai loro figli e figlie.
Quella donna ha cercato varchi d’aiuto perché ha saputo amare e non si è fermata davanti a niente e nessuno. Quella donna cercò e si fidò di Gesù e fu per sempre modello di una fede in un Dio grande il cui  amore non conosce confini.
Il Vangelo è buona notizia per tutti perché in questa buona notizia c’è posto anche per noi, come ce ne fu per questa donna che per amore dolcemente sfidò Gesù e lo convinse di essere proprio lui il Salvatore che tutto il mondo aspettava.