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Amici

Libro di Giobbe 4, 1-5; 5, 17-18; 6, 14, 24-27; 11, 1-5, 13-16; 13, 6-15
 
4, 1 Allora Elifaz di Teman rispose e disse:
2 «Se provassimo a dirti una parola,
ti darebbe fastidio?
Ma chi potrebbe trattener le parole?
3 Tu ne hai ammaestrati molti,
hai fortificato le mani stanche;
4 e le tue parole hanno rialzato chi stava cadendo,
hai rafforzato le ginocchia vacillanti;
5 e ora che il male piomba su di te,
ti lasci abbattere;
ora che è giunto fino a te, sei tutto smarrito.

5, 17 Beato l'uomo che Dio corregge!
Tu non disprezzare la lezione dell'Onnipotente;
18 perché egli fa la piaga, ma poi la fascia;
egli ferisce, ma le sue mani guariscono.

Ma Giobbe rispose:
6, 14 «Pietà deve l'amico a colui che soccombe, se anche abbandonasse il timor dell'Onnipotente.
 Ma i fratelli miei si sono mostrati infidi come un torrente.
24 Ammaestratemi, e starò in silenzio;
fatemi capire in che cosa ho errato.
25 Quanto sono efficaci le parole rette!
Ma la vostra riprensione che vale?
26 Volete dunque biasimare delle parole?
Ma le parole di un disperato se le porta il vento!
27 Voi sareste capaci di tirare a sorte l'orfano e di vendere il vostro amico!

11,1 Allora Zofar di Naama rispose e disse:
2 «Questa abbondanza di parole rimarrà forse senza risposta?
Basterà quindi essere loquace per aver ragione?
3 Varranno le tue ciance a far tacere la gente?
Farai dunque il beffardo, senza che nessuno ti contesti?
4 Tu dici a Dio: "Quel che sostengo è giusto,
e io sono puro in tua presenza".
5 Ma, oh se Dio volesse parlare
e aprir la bocca per risponderti. (…)
13 Tu però, se ben disponi il cuore,
e tendi verso Dio le mani,
14 se allontani il male che è nelle tue mani,
e non alberghi l'iniquità nelle tue tende,
15 allora alzerai la fronte senza macchia,
sarai incrollabile, e non avrai paura di nulla;
16 dimenticherai i tuoi affanni;
te ne ricorderai come d'acqua passata.

Ma Giobbe rispose:
11,6 Ascoltate, vi prego, quel che ho da rimproverarvi;
state attenti alle repliche delle mie labbra!
7 Volete dunque difendere Dio parlando con menzogna?
Sostenere la sua causa con parole di frode?
8 Volete aver riguardo alla sua persona?
E costituirvi difensori di Dio?
9 Sarà un bene per voi quando egli vi scruterà a fondo?
Credete di ingannarlo come s'inganna un uomo?
10 Certo egli vi riprenderà severamente,
se nel vostro segreto avete dei riguardi personali.
11 La sua maestà non vi farà sgomenti?
Il suo terrore non piomberà su di voi?
12 I vostri detti memorabili sono massime di cenere;
i vostri baluardi sono baluardi d'argilla.
13 Tacete, lasciatemi stare; voglio parlare io,
succeda quel che succeda!
14 Perché dovrei prendere la mia carne con i denti?
E trattenere la mia vita con le mie mani?
15 Ecco, mi uccida pure!
Oh, continuerò a sperare.
 
Ogni volta che mi accosto al libro di Giobbe lo faccio con sacro timore e un profondo senso di inadeguatezza. Il libro di Giobbe è altissima poesia, ma è anche una delle più profonde riflessioni sui cruciali interrogativi che attraversano l’umanità. Lungi dall’essere soltanto un testo didascalico, che intende insegnare qualcosa di importante sul rapporto umano-divino, dal carattere freddo e compassato, esso è invece un libro che palpita di vita, “un libro ricavato direttamente dalla vita, emerso dalla vita stessa del poeta. (…) Lo studioso Arthur Weiser scrive che il poeta “ha scritto col sangue del suo cuore” e io credo che abbia ragione.
Non posso qui dire tanto sull’insieme del libro. La storia che racconta è nota. Giobbe era un uomo integro, pio, rispettato dalla comunità. Dalla vita aveva ricevuto tutto. Salute, figli e figlie, benessere, considerazione sociale, ricchezze. Improvvisamente egli perde tutto. Dietro le quinte del dramma storico ed esistenziale noi veniamo a sapere che questa catastrofe avviene perché Dio scommette su di lui con una figura che nel primo capitolo viene definita come Satàn. Questa figura nel dramma riveste il ruolo di “pubblica accusa”. Egli insinua che Giobbe che Dio aveva lodato per la sua integrità e il suo timor di Dio, si mantenga integro soltanto perché gli va tutto bene, perché insomma gli conviene così e invita Dio a togliergli quello che ha per metterlo alla prova. Dio lo concede una prima e poi una seconda volta. Nel primo atto Giobbe perde tutto e tutti ma conserva la salute, nel secondo atto Giobbe perde anche la salute e si ammala di un morbo che rende la sua pelle piena di piaghe e croste purulenti. La sua disgrazia così totale lo allontana da tutti coloro che fino a poco prima lo stimavano e lo tenevano in gran conto. Sua moglie, provata anche lei – ma di questo il libro non parla - vedendolo soffrire così gli augura la morte e l’abbandono di ogni possibile rapporto con Dio. Ma Giobbe resiste. Tre frasi lo immortalano, tre frasi sublimi e tremende. La prima: “Nudo sono uscito dal grembo di mia madre, e nudo tornerò nel grembo della terra”. La seconda: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia  benedetto il nome del Signore”. La terza rivolta alla moglie: “Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio e rifiuteremo di accettare il male?”. Nei primi due capitoli è già sintetizzato il dramma. Giobbe ne esce vittorioso, non ha rinnegato il suo Dio. Dio ha vinto la scommessa, l’onore di Dio è salvo. Ma a questo punto della narrazione il tempo è come sospeso e  il dramma da qui in poi si snoda in un dialogo che Giobbe intreccia con tre suoi amici e poi con un quarto, ma del quarto non parlerò.
Nell’insondabile ricchezza dei contenuti non mi posso addentrare.  Mi soffermo oggi solo sul rapporto fra Giobbe e i suoi tre amici. Nel testo che abbiamo letto ho preso soltanto alcuni brevi scorci di questo dialogo, il libro è molto molto più ricco.

Il nostro contesto. Il nostro tema di quest’anno è missione nella com-passione e il testo di oggi vorrebbe aprire una piccola finestra su questo grande tema. Io sono convinta che oggi più che attraverso grandi eventi evangelistici di piazza, più che per mezzo di happening nazionali o scintillanti show di telepredicatori, la missione cristiana passi più umilmente per l’amicizia, il prendersi cura, l’avvicinarsi all’altro o all’altra senza altri scopi che affiancarla, infrangere  i muri di isolamento che ci separano,  spezzare quei diaframmi invisibili ma reali che dividono le persone fatti da mancanza di tempo, dal sentito dire, dal pregiudizio, dall’indifferenza e da mille altri impedimenti che il nostro tempo ci crea.
Con il libro di Giobbe si apre la finestra su cos’è o cosa non è un’amicizia compassionevole, ossia un’amicizia capace di com-passione, di soffrire insieme, appassionarsi insieme, condividere la vita dell’altro o dell’altra, camminare insieme, sostare insieme l’uno con l’atra.

Silenzio - Nel libro di Giobbe troviamo che gli amici di Giobbe cominciano con qualcosa che pochi di noi saprebbero fare. Si misero d’accordo, partirono ciascuno dal proprio paese e andarono a trovarlo e per ben sette giorni e sette notti sostarono accanto a lui seduti nella polvere. “Nessuno di loro gli disse parola perché vedevano che il suo dolore era molto grande” (2, 13). Stare accanto a una persona che soffre senza fuggire è molto importante. In uno dei suoi interventi Giobbe racconta proprio questo, come i tanti che gli erano amici, i tanti che lo avevano ossequiato, i tanti che gli avevano chiesto consigli , una volta che lui era caduto in disgrazia si erano dileguati, erano tutti spariti, gli avevano voltato le spalle (capitoli 29 e 30).
Questo avviene anche oggi molto spesso. Chi è ricco e poi cade in disgrazia vede spesso sparire i tanti che lo attorniavano. Succede anche per chi si ammala gravemente. Gli amici lo vengono a sapere, non hanno il coraggio di andare a trovarlo, non osano neppure telefonare. Ufficialmente è per non disturbare. La vera ragione è che spesso la malattia è spiazzante, la disgrazia ci rende muti, ci scuote dalla nostra stabilità emotiva, la situazione dell’altro ci lascia senza parole, siamo imbarazzati, intristiti e accade così che non abbiamo il coraggio nemmeno di telefonare, rimandiamo la visita, c’è sempre qualcos’altro che ce lo impedisce e il tempo passa, e più il tempo passa più difficile diventa riprendere il dialogo. E così se c’era un’amicizia, poi questa finisce perché non l’alimentiamo più. Ci sentiamo in colpa quando ci pensiamo. Cerchiamo di non pensarci. Ci informiamo poco, scuotiamo la testa quando qualcuno ci dà notizie…
Noi abbiamo la nostra vita, i nostri impegni, ci diciamo per assolverci… Non è accaduto anche a qualcuno di noi?

Ebbene, questi amici di Giobbe superano la tentazione della fuga. Si avvicinano molto, fino al limite della contaminazione, fisica e psicologica, stanno con lui e accettano il peso di un lunghissimo silenzio perché il dolore del loro amico era molto grande. Tanto di cappello!

Poi però gli amici parlano, uno alla volta… in primo luogo  reagendo alle parole che Giobbe pronuncia, spesso parole pesanti: Giobbe appena aperto bocca aveva maledetto il giorno della sua nascita…
Non possiamo addentrarci nelle singole argomentazioni degli amici di Giobbe. Posso fare soltanto un piccolo sommario.
Le argomentazioni dei saggi amici di Giobbe partivano dall’assunto che c’è un ordine che Dio ha stabilito nel mondo. Dio ha fatto conoscere la sua legge che doveva regolare la vita della comunità. Se si agiva bene la vita del singolo come della comunità sarebbe stata benedetta, l’acqua sarebbe caduta dal cielo in piogge benefiche, i campi avrebbero dato abbondanti raccolti e le greggi sarebbero state feconde. Se invece singoli e comunità trasgredivano il volere divino divenendo avidi, ingiusti, idolatri, infrangendo in qualche aspetto la legge di Dio, questo avrebbe portato disgrazia, carestia, sofferenza, morte. Il mondo si reggeva su questo principio in fondo semplice: Dio premiava o puniva a seconda delle circostanze. Dio era il garante della giustizia retributiva.
Se questo era vero – e gran parte della rivelazione biblica andava chiaramente in questa direzione – ergo, Giobbe che aveva ricevuto ogni sorta di perdita, doveva essere stato colpito per qualche sua colpa. Tutta l’argomentazione si racchiudeva in questo ferreo teorema. Se non fosse così Dio sarebbe stato ingiusto e questo non è possibile. Quindi uno dopo l’altro ogni intervento degli amici pian piano diventavano una requisitoria contro Giobbe prima velata e poi sempre più aperta e Giobbe era ogni volta costretto a difendersi. E questo teorema diventa così preponderante che l’ultimo intervento dei tre, di Elifaz, è un insieme di accuse a Giobbe assolutamente false, quasi isteriche.

Ecco che gli amici di Giobbe, a loro modo affezionati, pii, profondamente credenti, nel loro strenuo tentativo di giustificare Dio, di farsi difensori del principio di giustizia che gli attribuiscono diventano i più accaniti nemici di Giobbe, i suoi menzogneri accusatori, come il Satàn che lo aveva accusato a Dio nelle alte sfere, insinuando in Lui il sospetto sulla onestà e fedeltà del suo protetto.

Ecco il centro della nostra riflessione. Che tipo di amici vogliamo essere per coloro che incontriamo o dei quali ci prendiamo cura? Come ci accostiamo  a coloro che soffrono per una perdita, per un fallimento, per una malattia, per un handicap?
Perché quello che schematicamente vi ho tratteggiato degli amici di Giobbe non è qualcosa che è superato, che appartiene ad un passato che non ci riguarda.
Come ci accostiamo alle persone noi? Noi che abbiamo una fede magari anche ben definita? Abbiamo anche noi dei teoremi che ci impediscono di ascoltare fino in fondo il travaglio di chi abbiamo di fronte?
Se siamo riusciti a non fuggire dal male, dal tunnel oscuro che l’altro sta attraversando, se abbiamo affrontato il rischio dello spaesamento, se ci siamo avvicinati alla persona sofferente e bisognosa di ascolto, siamo sicuri che la nostra parola e la nostra fede sia stato un aiuto per la persona e non un fastidio? Dobbiamo avere l’onestà intellettuale di analizzare il nostro parlare con spirito autocritico.
Facciamoci allora delle domande.

Prima cosa. Giobbe aveva maledetto il giorno della sua nascita, aveva accusato Dio di perseguitarlo come un nemico, aveva fatto domande imbarazzanti sul perché di tanto accanimento, si era chiesto come mai a volte i cattivi prosperano e i buoni passano un sacco di guai. Se come Giobbe la persona che incontriamo dice cose che ci disturbano, magari ci scandalizzano anche, che cosa facciamo? Riusciamo ad ascoltare fino in fondo quello che l’altro ha nel cuore? Riusciamo a sopportare le sue durissime parole senza scappare o metterci subito sulla difensiva?
La prima domanda autocritica è dunque: abbiamo davvero il coraggio, la pazienza, affrontiamo lo sforzo, la fatica di ascoltare cercando di capire fino in fondo quello che viene detto?

Seconda domanda. Riusciamo a non fare gli avvocati difensori di Dio?
Qua ci addentriamo in un  contesto delicato. Pensiamoci un attimo. Cosa facciamo quando ci rivolgiamo all’altro o reagiamo alle sue parole? Difendiamo Dio?
Se lo facciamo, certo, sempre per amore di Dio, chiediamoci se sia proprio questo il nostro compito.
E ancora: siamo certi che difendiamo Dio o difendiamo noi stessi cercando di difendere la nostra idea di Dio? Difendiamo Dio o la nostra stabilità spirituale? Difendiamo Dio o la nostra tradizione confessionale? E difendendo Dio siamo certi che non attribuiamo a Dio le nostre idee, le nostre soluzioni, le nostre conclusioni?

Terza domanda. Quando siamo davanti a qualcuno che ci considera amico/a, ci poniamo il problema: cosa ci chiede il Signore in questo momento? Ci chiede di fare silenzio e ascoltare con piena partecipazione o ci chiede di parlare? Se siamo convinti che ci chiede di parlare, siamo certi di cosa dire? E poi, se siamo lì per la nostra amicizia verso la nostra amica o il nostro amico sofferente, prima di parlare abbiamo ascoltato bene?
E’ il momento del discernimento. Il discernimento è un dono dello Spirito e va invocato in umiltà e preghiera.
Perché certo possiamo farci ispirare e guidare dal libro di Giobbe e dobbiamo farlo, però non tutti sono Giobbe! Ognuno/a ha una sua storia e un modo di porsi rispetto alla vita e rispetto a noi e soprattutto rispetto a Dio. L’ascolto attento, il più possibile libero da pregiudizi serve proprio a discernere il bisogno profondo di chi stiamo visitando e anche il sussurro dello Spirito che può donarci una parola da dire.

Giobbe aveva le idee chiare rispetto a quello che aveva bisogno quando diceva: “Chi è tanto provato vuole pietà dall’amico anche se avesse perduto il timore del Potente” (traduzione di Amos Luzzatto).  Ecco quello che noi abbiamo chiamato com-passione. Giobbe aveva bisogno di amici compassionevoli capaci di ascoltare il suo grido di dolore, capaci di capire che a volte anche rispetto alle nostre posizioni religiose i conti non tornano. Questo aveva spaventato a morte gli amici che proprio per questo divennero i suoi accaniti oppositori.

C’è ancora un’ultima domanda che dobbiamo porci con onestà. Siamo sicuri che non facciamo come gli amici di Giobbe  e come loro diciamo a chi sta davanti a noi:
13 Tu però, se ben disponi il cuore,
e tendi verso Dio le mani,
(…)
16 dimenticherai i tuoi affanni;
te ne ricorderai come d'acqua passata.

Cioè non diciamo anche noi: “Se metti la tua vita nella mani del Signore, vedrai che il Signore ti guarirà e presto passerà tutto e quello che oggi vivi sarà soltanto un brutto ricordo”?
Chi non ha detto mai queste parole pie a qualcuno gravemente ammalato o in grave difficoltà?
Bene. Non dobbiamo farlo più per una ragione molto seria: noi non sappiamo che cosa avverrà, semplicemente non possiamo saperlo. Esortare a mettere la vita nelle mani del Signore, sì, possiamo dirlo ma dire che tutto passerà e si risolverà per il meglio non possiamo dirlo. E, attenzione, non per mancanza di fede o di speranza, ma perché semplicemente non sappiamo se sarà così. E noi non siamo Dio. Dio conserva il suo mistero e noi dobbiamo rispettarlo.

Un ultimissimo pensiero che enuncio senza svilupparlo, avremo occasione di farlo in futuro.
Gesù alla vigilia della sua morte dice ai suoi discepoli: “Nessuno ha amore più grande di quello di dar la sua vita per i suoi amici. Voi siete miei amici”. (Giov 15, 13-14a)
Gesù nel momento estremo non trovò amici pronti a vegliare con lui, lui invece fu nostro amico. Fu solidale con noi e, lui, Figlio di Dio soffrì e morì la morte più atroce e umiliante per stare vicino all’ultimo fra noi. Questa è l’amicizia, rinunciare ad avere ragione, rinunciare ai nostri teoremi, rinunciare a fare gli avvocati difensori di Dio, rinunciare a qualcosa a cui teniamo, accettare per amore del nostro amico, della nostra amica di camminare su terreni accidentati e poco sicuri, farci mettere in crisi. Gesù, l’amicizia l’ha vissuta così, fino in fondo. Tutta la sua missione fu amicizia. Amicizia vera.