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Parola e parole

Testo: Deuteronomio 8,1-3

Che cos’è la Parola di Dio? Quella Parola che ci convoca e ci costituisce chiesa; quella Parola che viene proclamata al culto, approfondita nello studio biblico, pregata nel segreto della propria stanza; questa Parola che diciamo esserci cara, cos’è?

E’ simile alle parole umane o se ne distanzia? Per potersi far intendere dagli esseri umani, per forza di cose, Dio deve parlare il loro linguaggio. Per cui, la Parola di Dio, in quanto “parola”, è anche lingua e storia, come le nostre parole. Ma allo stesso tempo è “di Dio”. Si differenzia dai nostri pensieri e non batte le nostre vie (Is. 55,8). Ovvero, annuncia un mondo in cui è Dio a regnare, in cui sono in vigore criteri diversi dai nostri. E non è solo il contenuto ad essere diverso; anche la via attraverso cui giunge a noi prende le distanze da quelle frequentate dalle nostre parole, spesso usate in libertà, ridotte a chiacchiera. 

Il discorso di Mosè che leggiamo nel Deuteronomio riflette questa vicinanza di una Parola che è per noi, prossima a noi (Deut. 30,14), parla la nostra lingua e, allo stesso tempo, è distante, altra.

Innanzitutto, dal libro da cui abbiamo tratto il brano – il Deuteronomio - capiamo che si tratta di una Parola che non si offre ad un ascolto frettoloso, ad una comprensione che pretende di essere immediata: domanda ripresa (deutero-nomio, ovvero una seconda proclamazione della legge), ascolto paziente (un nuovo ascolto, che frena la fretta del popolo di entrare nella terra promessa), come si presta ad una parola ultima, decisiva (Deuteronomio è il testamento di Mosè). 

Soffermiamoci sulle indicazioni fornite dal nostro testo. Due immagini si impongono alla lettura. La prima presenta la Parola come un itinerario, che mette in cammino, che domanda di affrontare delle prove. Bisogna ricordare l’intero percorso proposto dalle Scritture per comprendere il senso della Parola. Conta meno il singolo sasso, per quanto sia riuscito ad attirare l’attenzione, che non l’orizzonte complessivo della strada. La Parola propone un percorso che mette a nudo la nostra identità (il cuore. Ger. 17,9!).

La seconda immagine che ci aiuta a comprendere cosa sia la Parola è quella della manna. La Parola è cibo che nutre, che da vita. Certo, un cibo particolare. Perché viene dall’alto, da Dio. E anche perché – come ricorda il libro dell’Esodo (16,16) – non è a lunga conservazione: non si può accumulare la Parola, come se si trattasse di avere tante informazioni esatte. Essa va raccolta ogni giorno; è il pane del cammino, il nutrimento per una storia che continuamente cambia. La Parola che nutre la storia è anche interpellata dalle vicende umane, mette in moto una dinamica di discernimento: cosa mi sta chiedendo Dio in questo momento della mia vita, in questa fase della storia umana? La Parola dall’alto, a contatto con le nostre vicende umane, è sottoposta ai fattori ambientali in cui si ritrova ad agire. Lo stesso cibo buono, accolto a tempo scaduto, diventa velenoso. E’ lo Spirito che può far risuonare nel presente quella Parola di Dio che, senza lo Spirito, rimane lettera morta.

Lo Spirito che ha risuscitato Gesù dai morti risuscita nel nostro presente le parole della Scrittura affinché tornino a far sentire la voce di quel Dio che ci chiama per nome, che intende stringere un patto con noi.

Ora, perché sia Dio a parlare e non tanto le nostre parole, attribuite a Lui, occorre essere disponibili ad accogliere una Parola imprevedibile, inedita. Nel dialogo d’amore quella Parola va custodita e coltivata (come nel giardino di Eden: è questa la vocazione umana originaria). Non basta ripetere parole note: la Parola risuscitata dallo Spirito è quel soffio che ci mette in movimento e che sollecita i nostri piedi a segnare sul terreno delle nostre esistenze concrete i passi di Dio (cfr. Giov. 8,1-11). 

Siamo molto lontani da quell’idea un po’ superficiale di parola intesa come un insieme di lettere che hanno un preciso significato e che si tratta solo di comprendere nella loro esattezza. Qui non è questione di informazioni da ricevere, di alfabeto e grammatica da sapere. Perché questa Parola, che dall’alto raggiunge la nostra storia, ci è data per poter vivere. Non conta tanto la lettera della Parola. O meglio, la lettera – lo “sta scritto” – è in funzione della vita (cfr. Giov. 20,31). E così, dalla domanda iniziale – che cos’è la Parola? – siamo rimandati alla domanda decisiva: cosa è la vita? cosa significa vivere?

E del resto, si legge come si vive! Se siamo persone preoccupate del nostro piccolo io, tutte impegnate a conservare la posizione raggiunta (Mt. 16,25!), leggeremo le Scritture alla ricerca di una parola che ci confermi nelle nostre idee. Cercheremo una parola che funzioni come le istruzioni per l’uso, che ci dica in poche battute cosa fare: è questa, soprattutto, la tentazione attuale, in un contesto complesso, in cui tutto è precario e più di ogni altra cosa temiamo l’insicurezza. La sfida (controcorrente!) consiste nell’andare oltre il nostro io, nel fidarci di una Parola che desidera la nostra salvezza e per questo ci nutre (cfr. Ez. 3,1-3) e, con la forza di quel cibo, ci invita a compiere un cammino che è diverso da quello desiderato, che domanda conversione. Una Parola così chiede molto più della semplice comprensione mentale. Domanda di amare la vita, la storia. Invita a non rassegnarsi all’esistente, osando invece mettere il lievito dell’evangelo nella pasta di questa storia poco commestibile. E per farlo, è necessario che coltiviamo l’arte dell’ascolto. “Abbiate cura…”: partiamo da qui per affrontare i nostri tempi incerti e disperati, avendo con noi il dono di una Parola che desidera la nostra vita, che ci sollecita a non sciuparla.